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Pubblicazioni,
libri, articoli sul mondo Inter
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Zanetti ancora una partita poi fai il Facchetti
Una figurina che ogni padre metterebbe in mano al
proprio figlio come un santino, a prescindere dal
campanile del tifo: gioca come lui, comportati come lui.
Il capitano nerazzurro è da anni una stella polare
indicata ai giovani che si incamminano nello sport....
Un articolo di Luigi Garlando, tratto da Gazzetta.it del
30 Aprile 2013
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L'anima azzurra di Facchetti:"Dopo
l'Inter, solo il Napoli"
Giacinto e l'attrazione per il capoluogo partenopeo
svelati nel bel libro del figlio Gianfelice. Quanti
incroci: la monetina degli Europei e la prima rete in
assoluto, siglata a Bugatti su assist di Picchi. Sino al
processo di Calciopoli.
Un articolo di Giovanni Marino, tratto da
Repubblica.it del 01 Ottobre 2011
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"Prete,
tabella e una mia follia così firmammo la Grande Rimonta"
A 40 anni dall'undicesimo scudetto interista
Sandro Mazzola rivive il campionato del 1971 conteso,
proprio come adesso, a Milan e Napoli. E svela: "Quando
entrai nello spogliatoio dell'arbitro a fine primo tempo
e gli urlai: lei ci sta penalizzando..."
Un articolo di Giovanni Marino, tratto
da Repubblica.it del 31 Marzo 2011
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"Le confessioni di Capitan Mazzola."
Quel blitz
dall'arbitro nel match col Napoli"
Un articolo di Giovanni Marino, tratto
da Repubblica.it del 31 Marzo 2011
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"Io, piccolo Facchetti
tra i giganti dell'Inter"
Il racconto
vero e appassionato di Gianfelice.
Un articolo di Giovanni Marino, tratto
da Repubblica.it del 15 Dicembre 2010
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Le confessioni di Capitan Zanetti: "Dal
caos alle vittorie con l'Inter",
un articolo di Giovanni Marino, tratto
da Repubblica.it del 09 Novembre 2010
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"Suarez, lo specialista di Coppa. E HH disse: 'Saremo
il nuovo Real'", un articolo
di Giovanni Marino,
tratto da Repubblica.it del 22 Maggio 2010
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"La vita mancina di Mario Corso. 'Io, tra
Herrera, Pelè e Berselli'", un articolo
di Giovanni Marino,
tratto da Repubblica.it del 21 Aprile 2010
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"Io
il Barcellona l'ho battuto. Agli spagnoli si fa gol
così", un articolo
di Giovanni Marino,
tratto da Repubblica.it del 16 Aprile 2010
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"Vi racconto l'ultima finale dell'Inter: la Coppa
valeva 10 milioni di lire'", un articolo
di Giovanni Marino,
tratto da Repubblica.it del 31 Marzo 2010
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"Le confessioni di Bonimba: 'Quando segnai di
pugno'", un articolo di Giovanni Marino,
tratto da Repubblica.it del 24 Novembre 2009
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"Se Ronaldo fosse rimasto...". un
articolo dalla Gazzetta dello Sport del 17 Maggio 2003
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L'AMERICANA ESPN
PONE L'INTER IN
CIMA ALLA CLASSIFICA TOP 25
www.inter.it
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Un'intervista
a Gino Strada rilasciata a
www.inter.it
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Un'intervista
di Stefania Rossini a Massimo Moratti pubblicata
sull'Espresso
del 21.11.2002
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Un articolo di Enzo
Catania, su Massimo Moratti, pubblicato su
Il
Nuovo nel
Novembre del 2001
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Un articolo di Enzo
Catania, su Hector Cuper pubblicato su
Il
Nuovo
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Recensione del
libro di Nando dalla Chiesa,
intitolato "Capitano, mio Capitano" La leggenda
di Armando Picchi, livornese nerazzurro, scritta da Michele
Mancino e pubblicata su
varesenews@ilcircolino.it Redazione Via S. Imerio 10 - Varese 0332/242580 fax
0332/236302
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Brano
da un articolo di Enzo Catania, su Giovanni
Trapattoni - che è stato allenatore dell'Inter
- pubblicato su Il
Nuovo
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Brano
da
un articolo di Enzo Catania, su Marcello
Lippi - che è stato allenatore dell'Inter -
pubblicato su Il
Nuovo
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LA STORIA NEL PALLONE INTER-HERRERA:I DUE NOMI
MITICI DEGLI ANNI '60 di IGOR PRINCIPE
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ZANETTI ANCORA UNA PARTITA POI FAI IL FACCHETTI
Una figurina che ogni padre metterebbe in mano al proprio
figlio come un santino.
Articolo
di Luigi Garlando
pubblicato da Gazzetta.it (30
Aprile 2013)
Javier Zanetti è una figurina che ogni padre metterebbe in
mano al proprio figlio come un santino, a prescindere dal
campanile del tifo: gioca come lui, comportati come lui. Il
capitano nerazzurro è da anni una stella polare indicata ai
giovani che si incamminano nello sport.
La sua lezione più preziosa è la dignitosa accettazione
della sconfitta e l’orgoglioso sforzo per ripartire. Una
lezione straordinariamente moderna oggi che ai ragazzi si
insegna altro: che la sconfitta è la spia del fallimento, da
evitare in tutti i modi, e non un passaggio naturale e
istruttivo per migliorarsi. Detto con rispetto, Zanetti ha
perso di tutto con l’Inter e con l’Argentina: coppe,
scudetti, quella finale olimpica del ’96 con la Nigeria di
Kanu che sembrava già vinta... Per non parlare del 5 maggio.
Zanetti ha annodato una all’altra quelle delusioni e ne ha
fatto una corda solidissima con cui si è arrampicato fino
alla gloria somma del Triplete. La sua traiettoria
calcistica ha la forza di una parabola. Allenato da una vita
a reagire alla sventura, Zanetti ha reagito d’istinto, con
la solita forza, un minuto dopo l’incidente di Palermo: «La
mia carriera non è finita. Cambio solo le gomme».
Comprensibile, doveroso. Imporsi un traguardo, crederci,
significa già cominciare a guarire.
Ieri, il giorno dopo, più a freddo, ha usato parole
significativamente diverse: «Voglio tornare anche per una
partita sola davanti ai miei tifosi». Forse la precisazione
è un primo passo verso una nuova lezione del capitano:
l’accettazione serena della legge del tempo e di un destino
che ha colpito duro, ma dopo aver concesso tanto. La rottura
del tendine d’Achille non è un infortunio come gli altri, è
un crollo da usura, è il corpo che dice basta, è la
campanella dell’ultimo giro. Pensare di tornare in campo per
«una partita sola», per congedarsi in modo festoso dal
proprio popolo, dopo un’avventura irripetibile, ha un senso.
Molto meno pensare di prolungare ad oltranza la carriera,
dopo un infortunio del genere, a 40 anni. Cosa avrebbe da
guadagnarci? Nuovi record da incidere sulla fascia di
capitano? La gloria non è un surplace alla Maspes.
E’ una volata con le gambe forti. Più che prolungare la
propria visibilità, conta salvaguardare il proprio ricordo,
la propria statua costruita in 20 anni di splendida carriera
e non corromperla con le ultime martellate. Chi ha amato
Bjorn Borg avrebbe evitato con tutto il cuore di vederlo
armeggiare nel ’93 con la sua vecchia racchetta di legno e
perdere contro le comparse. La stagione in corso ha mostrato
Zanetti in difficoltà atletica come mai in passato. Potrebbe
esserlo di meno tra un anno, dopo un infortunio tanto grave?
Una grande bandiera smette di appartenere solo a se stesso,
deve rendere conto anche a chi la sventola: chi lo ama vuole
che resti il trattore che arava la fascia, che sradicava
palloni, che si avvitava su stesso e ripartiva
inarrestabile. Almeno nel ricordo. Non sarebbe stato facile
per Zanetti decidere di fermarsi, ora l’infortunio gli apre
nuove prospettive. Ci sono sventure che Alessandro Manzoni
chiamava «provvide», perché nella sofferenza introducono a
svolte sagge.
Nel ’78 Giacinto Facchetti avrebbe potuto giocare un altro
Mondiale, ma ascoltò il suo corpo e con grande onestà disse
no a Bearzot che lo volle in Argentina come capitano non
giocatore. Chiuse lì una carriera leggendaria. Avrebbe
servito l’Inter da dirigente fino agli ultimi giorni. E’ il
tappeto che si srotola ai piedi di Zanetti: diventare il
nuovo Facchetti della giovane Inter che sta per nascere, il
dirigente di personalità e presenza di cui la squadra ha
tanto bisogno, restando la bandiera di sempre. Giocherebbe
per la sua Inter e nell’immaginario continuerebbe a correre.
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L'ANIMA AZZURRA DI
FACCHETTI:"DOPO L'INTER,
SOLO IL NAPOLI"
Giacinto e l'attrazione per
il capoluogo partenopeo
svelati nel bel libro del
figlio Gianfelice. Quanti
incroci: la monetina degli
Europei e la prima rete in
assoluto, siglata a Bugatti
su assist di Picchi. Sino al
processo di Calciopoli.
Articolo
di
Giovanni Marino
pubblicato da Repubblica.it (01
Ottobre
2011)
C'era Napoli nel cuore di
Giacinto Facchetti. Ed è una
piacevole sorpresa scoprire
che il capitano della
Nazionale da Treviglio,
profondo Nord, il terzino
goleador dell'Inter ambisse
a vestire la maglia azzurra
qualora avesse dismesso
l'amata casacca. Indossata
per l'intera carriera, dai
Sessanta ai primi Ottanta.
C'era molto che riguardasse
il Napoli e Napoli nel
destino di Facchetti. Perché
agli azzurri Giacinto segnò
il primo gol in serie A. E
al San Paolo ebbe una
emozione unica: conquistare
con un testa o croce di una
monetina il pass per la
finale degli Europei che
l'Italia avrebbe poi vinto.
C'è ancora Napoli, oggi, per
i Facchetti. Giacinto,
scomparso anni fa vinto da
un male incurabile, sempre
fiero oppositore del calcio
inquinato e Gianfelice, il
figlio che ora ne diffonde i
messaggi positivi di lealtà
e sportività e ne protegge
la figura in Tribunale, al
Centro direzionale, da chi
vorrebbe macchiarla nello
squallido scenario di
Calciopoli.
Racconta questo e molto
altro il bel libro di
Gianfelice Facchetti "Se no
che gente saremmo", edito da
Longanesi, appena uscito
nelle librerie. La storia di
un atleta silenzioso e
sensibile, talentuoso e mai
spaccone; e di un figlio che
ne tratteggia la figura di
uomo e calciatore con una
parola sola (da qui il
titolo del volume).
IL SECONDO AMORE.
Dunque, Napoli. Giacinto
svelò quale era il suo
secondo grande amore
calcistico con il consueto
pudore. Racconta suo figlio:
"Papà disse che se avesse
mai dovuto lasciare l'Inter
gli sarebbe piaciuto giocare
nel Napoli, la squadra a cui
aveva segnato il suo primo
gol in serie A. Il cuore del
Sud Italia: niente di più
lontano dalla sua nebbia e
dai posti che d'inverno
inghiottiva, niente di più
diverso dalla sua mitezza
lombarda che l'istinto
partenopeo per cui avrebbe
voluto correre". Bella la
riflessione di Gianfelice
sulla passione azzurra del
padre: "Forse certe cose
ognuno di noi le ha ha
sempre sapute; al di là
delle radici, le strade e le
città dei nostri passaggi
disegnano una mappa che alla
fine del viaggio mostrerà
luoghi ricorrenti, scelti o
che ci hanno trovato, in cui
è rimasto un frammento della
nostra anima. Napoli, nella
storia di papà, è uno di
questi".
IL PRIMO GOL.
Giacinto e Armando Picchi,
altro grande difensore
scomparso, erano amici. Un
rapporto saldato anche da un
ricordo speciale: la prima
rete in serie A del terzino
goleador. Guarda caso, al
Napoli. Era il trenta maggio
del 1961. L'assist, evento
raro, glielò forni proprio
Picchi. Con la voce del
padre Gianfelice
ricostruisce l'azione: "Nei
pressi dell'area napoletana
Armando si sbarazzò di un
avversario e quando vide il
portiere venirgli incontro
per rovinargli la festa fu
semplicemente magnifico,
effettuò un cross al
millimetro e la palla arrivò
sui miei piedi; in quel
momento la mia
concentrazione era al
massimo: non pensavo a
nulla, né alla folla né a me
stesso. Pensavo solo che il
mio dovere era quello di
colpire di piatto quella
palla e di mandarla nel
posto giusto. Lo feci e la
palla finì in rete. Il mio
primo in serie A"". Per la
cronaca la gara di Milano
finì tre a zero con le altre
reti di Corso e Bolchi;
Bugatti fu il primo portiere
battuto da Giacinto in un
Napoli che in avanti contava
su Di Giacomo, Pivatelli,
Tacchi.
QUELLA MONETINA A
FUORIGROTTA.
Campionati d'Europa 1968,
stadio San Paolo, Napoli.
Italia e Unione Sovietica si
giocano l'accesso alla
finale ma non riescono a
superarsi. Neppure ai
supplementari. I rigori non
sono contemplati e tutto
verrà deciso dalla sorte.
Dal lancio di una monetina.
Tocca a Facchetti decidere
quel match con il fato.
Passa l'Italia. Giacinto la
ricordava così, quella
partita vinta con la dea
bendata: "Fare gol con la
monetina è una cosa
maledettamente difficile,
davvero ci provai con tutte
le mie forze e con una
grande tensione. Divenni
anche prepotente, per la
prima volta nella mia vita.
Infatti era successo che
l'allenatore dei sovietici,
signor Jakuscin, voleva
scegliere lui la parte della
medaglia, una moneta da 10
franchi francesi dove da una
parte c'erano degli stemmi e
dall'altra delle figure.
Anzi, aveva già scelto.
Jakuscin disse al capitano
Shesterniev di indicare le
figure. Allora mi opposi".
Una mossa vincente: testa o
croce, Giacinto disse testa,
corrispondeva alle figure.
"La monetina cadde a terra e
si mise a rotolare, non si
fermava mai... ecco si è
fermata, ecco vedo le
figure, allora non capisco
più niente: credo di aver
scardinato la porta
dell'arbitro e quella dei
nostri spogliatoi. Entrai
come una bomba. urlando".
LA FESTA SILENZIOSA DI
BURGNICH AL SAN PAOLO.
Negli spogliatoi del San
Paolo è festa grande. Tutti
ebbri di gioia, tutti tranne
uno: Tarcisio Burgnich,
roccia difensiva dell'Inter
di Helenio Herrera.
Gianfelice ricorda cosa
raccontò il padre: "Tarcisio
non mi saltò al collo e non
mi baciò. Era rimasto
tranquillamente seduto sulla
sua panchina e stava ancora
togliendosi le scarpe da
gioco piene di fango.
"Tarcisio - gli dissi - ma
non sei contento?". E lui:
"Certo che lo sono ma io
sapevo già come sarebbe
andata a finire. sapevo già
tutto... l'avevo detto a
tutti: va di là Facchetti e
quello sceglierà la parte
giusta, non avevo dubbi. Ho
sempre avuto fiducia in te,
Giacinto". La serafica e
granitica fiducia di
Burgnich nello spogliatoio
di Napoli era un episodio
che non potevo tralasciare".
Che incroci del destino:
Tarcisio, il terzino destro
dell'Inter euromondiale
avrebbe poi concluso la
carriera proprio nel Napoli.
Il secondo amore calcistico
di Giacinto.
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Articolo
di
Giovanni Marino
pubblicato da Repubblica.it (31 Marzo
2011)
Napoli, sull'aereo che rulla
sulla pista di Capodichino
tre leggende del calcio
Mondiale discutono
animatamente. Burgnich, il
granitico Tarcisio
dell'Inter euromondiale
degli anni Sessanta è il più
accanito. "Possiamo vincerlo
ancora, oggi abbiamo giocato
proprio bene, dipende solo
da noi", incita il difensore
nerazzurro. Vicino, siede
Sandrino Mazzola, figlio del
mitico Valentino granata,
bandiera e capitano del
Biscione. Proprio davanti
c'è Facchetti, l'altro
terzino delle Coppecampioni
e Intercontinentali, il
primo difensore capace di
segnare come un bomber.
Tutti reduci da una
sconfitta, bruciante, al San
Paolo con il Napoli di
Juliano, Zoff e Altafini. E
da un tremebondo inizio di
torneo che è già costato la
panchina al difficile
Heriberto Herrera.
CALCOLI MATEMATICI
- E' il tardo pomeriggio del
22 novembre 1970 quando
l'aeroplano decolla,
direzione Milano. La
discussione si infervora. "A
un certo punto io mi
convinco - racconta a
"Repubblica" Mazzola,
custode di tutti i segreti
della Grande Rimonta nel
campionato '70-'71 di cui
ricorre adesso il
quarantesimo anniversario -
e scuoto il sedile di
Giacinto per coinvolgerlo.
Passano pochi minuti e ci
ritroviamo a far calcoli: io
tiro fuori un opuscoletto
con tutte le giornate ancora
da disputare e cominciamo a
fare la famosa tabella". Che
poi sarebbe? "Assegnare,
partita per partita, i punti
possibili a Napoli e Milan,
che ci precedono e... a noi
stessi. Beh, viene fuori che
alla fine vinciamo noi se
rispettiamo la tabella".
I DUBBI DI FRAIZZOLI
- Così, letteralmente per
aria, nasce la ferrea
volontà di cucirsi addosso
l'undicesimo scudetto.
"Tutti e tre, i vecchi della
Grande Inter ci alziamo e
andiamo dal presidente
Ivanhoe Fraizzoli. Lui,
abbatuttissimo, seduto da
solo nella parte finale
dell'aereo, ci rinvia al
mittente parlando milanese
stretto: "Scudetto? Figlioli
miei andate, andate su, che
fantasia figlioli miei, ma
di che parliamo? Siamo a 7
punti dal Napoli e a 6 dal
Milan, ma va là, dai".
Comprensibile, ma noi ci
crediamo e in questo sport
se ci credi davvero sei a
metà dell'opera".
IL DISTACCO DA MILAN E
NAPOLI
- Alessandro Mazzola ha
voglia di raccontare. I suoi
ricordi, 40 anni dopo, sono
ancora vividi. "Fu
un'impresa, l'ultima della
Grande Inter, e ne sono
tuttora fiero". Nessuna
presunzione. Ha ragione:
nell'epoca del campionato a
16 squadre e dei (soli) 2
punti per una vittoria,
l'Inter seppe rimontare a
partire dalla ottava
giornata tutto il vantaggio
accumulato dalle due squadre
che la precedevano per
andare a vincere,
addirittura, con un distacco
di 4 punti. "Già, da quel
giorno non perdiamo più, le
vinciamo quasi tutte, se non
sbaglio concediamo solo tre
pareggi, di cui due alla
fine, a cose fatte, il
tricolore è nostro, ma ci
sono altri retroscena".
DA
HERIBERTO A INVERNIZZI
- Sandrino non si fa
pregare. "Dunque, al timone
non c'è più Heriberto
Herrera ma Gianni Invernizzi
e l'atmosfera nello
spogliatoio si è
rasserenata. Povero
Heriberto, era un ottimo
allenatore, profeta di un
calcio moderno, così
moderno, il movimiento (come
diceva lui) senza palla, che
noi non lo capivamo. E poi
il carattere era difficile,
chiuso, introverso. Con
Gianni, invece, tutta
un'altra musica. Per prima
cosa rimette in squadra tre
giocatori che Heriberto
aveva fatto fuori, tutti
fortissimi, Gianfranco Bedin,
Jair da Costa e Mario
Bertini, se non ricordo
male. Nasce la tabella e a
questa aggiungiamo una
scaramanzia: un prete".
LE PREGHIERE DI DON BOMBA
- "Il mio prete - prosegue
divertito Mazzola - perché
era stato professore alla
scuola Armando Diaz dove ero
andato e in seguito avrebbe
anche celebrato le mie
nozze. Si chiamava monsignor
Spada, da ragazzini lo
avevamo soprannominato Don
Bomba: era alto e grosso,
con un bel vocione e abitava
vicino al Duomo. Una sera,
visto che Invernizzi aveva
l'abitudine di riunirci il
venerdì per cena in un
ristorante della zona,
proposi di andare a
trovarlo. Lui ci accolse e
ci ordinò di confessarci:
"Siete biricchini voi
giovani calciatori e se
volete vincere dovete dire
tutto al Signore". Insomma,
la domenica seguente si
vinse e per tutto il
campionato Don Bomba fu,
assieme, il nostro
confessore e il nostro
talismano".
IL
SINISTRO DI MARIOLINO -
E arrviamo alle sfide di
ritorno con le grandi
rivali. Il Milan e il
Napoli. "Il derby è
cruciale. Siamo molto tesi.
Niente affatto sicuri di
vincere. Risultato
obbligato, per noi. E la
gara resta così, quasi
sospesa, finché il geniale
sinistro di Mariolino Corso
su punizione, la sua
specialità, non ci porta in
vantaggio. Poi chiudo io la
gara su azione di Jair da
Costa, contropiede veloce,
delizioso cross per Roberto
Boninsegna che colpisce di
testa e prende il palo
oppure ci arriva Fabio
Cudicini, comunque sia io
ribatto in rete. Due a zero,
ma sappiamo che non è finita
lì".
IO NELLO SPOGLIATOIO
DELL'ARBITRO - Altro
match fondamentale per
completare il sorpasso e
lasciarsi definitivamente
dietro rossoneri e azzurri è
la gara con il Napoli. Si
gioca a San Siro, il 21
marzo 1971. E lì ne accadono
di tutti i colori. Mazzola,
40 anni dopo, con il sorriso
sotto i celebri baffi, svela
un suo clamoroso blitz:
"Feci una cosa che non si
può fare, proibita dal
regolamento. Una cosa
sbagliata. Irruppi nello
spogliatoio dell'arbitro e
gliene dissi quattro. Ma non
volevo ottenere favori.
Piuttosto intendevo
riequilibrare una conduzione
di gara a noi assolutamente
sfavorevole". E' il suo
punto di vista. Che contiene
comunque un'ammissione.
DALL'ESPULSIONE AL BLITZ
- Il suo racconto: "Il
Napoli è avversario tosto,
forte e quadrato. Con
giocatori di classe
cristallina come Dino Zoff
in porta, Totonno Juliano a
centrocampo, Josè Altafini
in attacco. Sta disputando
un grandissimo torneo. E' in
corsa. E se la gioca. Va in
vantaggio con Altafini che
riprende una respinta di
Lido Vieri. Subito dopo
l'arbitro, l'internazionale
Sergio Gonella, ci butta
fuori Burgnich per un fallo
su Umile. Decisione che
secondo noi non ci sta.
Protestiamo, in quei primi
45 minuti ci sentiamo presi
di mira dal direttore di
gara e non ci va giù". Sotto
di un gol e in dieci contro
undici, l'Inter vede svanire
la Grande Rimonta. Ma
attenti al colpo di teatro.
"Finito il primo tempo,
mentre i compagni sono nello
spogliatoio, io mi dirigo in
quello dell'arbitro Gonella.
Entro come una furia e lo
aggredisco verbalmente.
Rammento di avergli detto
che non poteva arbitrare in
quel mondo, che ci stava
penalizzando gravemente e di
aver usato qualche
espressione colorita il cui
senso era: o si dà una
regolata o da San Siro
usciamo tutti fritti,
finisce male: noi, perché
perdiamo partita e scudetto
e lei, perché con il suo
arbitraggio sarà stato il
principale responsabile
della sconfitta. Gonella è
esterrefatto, mi dice
qualcosa del tipo: "Mazzola,
esca immediatamente da qui,
ma cosa fa, come diavolo si
permette?". Mi guarda
assolutamente sconcertato e
ha ragione...".
IL RIGORE DI BONIMBA
- Secondo tempo. Cambia
tutto. L'Inter attacca a
testa bassa e dopo neppure
dieci minuti ottiene un
rigore. Contestatissimo a
dir poco, anche 40 anni
dopo: un (ipotetico) fallo
di ostruzione in area di
Panzanato che protegge
l'uscita di Zoff proprio
dall'arrivo di Mazzola. Per
giunta, Boninsegna lo
realizza fermandosi
platealmente nella rincorsa.
Altafini mima la scena con
Gonella chiedendogli almeno
di far ripetere il penalty.
Nulla da fare. A quel punto
il Napoli perde la testa e
la partita. Zoff,
innervosito, compie una
delle sue rarissime papere
non trattenendo un colpo di
testa in acrobazia sempre di
Boninsegna che quasi si
spacca una tempia mentre il
difensore Panzanato cerca un
plastico rinvio. Inter 2,
Napoli 1. Lo scudetto prende
una sola strada e non porta
a Sud.
SQUADRA DI CAMPIONI -
Mazzola ammette, ma non
ammaina la bandiera
dell'orgoglio
interista:
"Col senno di poi,
probabilmente, misi addosso
un tale senso di colpa a
Gonella che finii per
condizionare il suo
arbitraggio. Sinceramente
penso che alla fine avremmo
vinto lo stesso: in quella
squadra c'erano sei o sette
giocatori dell'Inter che
aveva dominato il mondo. E
poi ragazzi del calibro di
Mauro Bellugi, Mario
Giubertoni, Vieri, Bertini,
un regista dai piedi buoni
come Mario Frustalupi e quel
gran goleador acrobata che
era Bonimba Boninsegna. Per
non parlare di due "bambini"
che avrebbero fatto tanta
strada: Ivano Bordon e
Gabriele Oriali. Tanta roba,
insomma. Giocatori tecnici e
dal carattere indomito,
altrimenti non avremmo
firmato quella strepitosa
rimonta. Era una corsa a
tre, noi, il Napoli e il
Milan. Curioso, proprio come
adesso...".
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"LE CONFESSIONI DI CAPITAN MAZZOLA" Quel
blitz dall'arbitro nel match col Napoli"
Stagione 1970-1971: Napoli, Milan e Inter si
contendono lo scudetto. Proprio come adesso.
Nel giorno di primavera si gioca un match
decisivo. Gli azzurri vanno in vantaggio e
sognano. Ma poi accade qualcosa negli
spogliatoi e la gara si ribalta. Tra le
proteste di Ferlaino, Altafini e compagni.
La bandiera nerazzurra racconta tutto.
Articolo
di
Giovanni Marino
pubblicato da
Repubblica.it (31 Marzo
2011)
Gli
americani li chiamano cold
case. Si riferiscono a quei
gialli che trovano soluzione
dopo tanto, tanto tempo. In
questa storia il cadavere,
fortunatamente, non c'è. O
meglio, a volerlo cercare è
un triangolino tricolore. Di
stoffa. Lo scudetto stagione
1970-1971. Che i tifosi
storici del Napoli ancora
reclamano, ritenendolo
scippato, di malamaniera,
dall'Inter.
In un match in cui si parlò
di un'incursione diretta di
un importante giocatore
nerazzurro sull'arbitro. Una
discussione influente. Al
punto da cambiare inerzia e
risultato della partita
decisiva. Quarant'anni dopo
quel giocatore, oggi un
distinto signore e
opinionista televisivo,
svela tutto. Chiude il caso.
Con una semplicità
disarmante. E i toni giusti,
perché sempre di una partita
di pallone parliamo.
Sì, quel blitz nello
spogliatoio dell'arbitro ci
fu. E Sandrino Mazzola,
celebre capitano dell'Inter
che trionfava in Europa e
nel mondo, lo racconta con
una attendibilità totale.
Perché fu lui a entrare
nello spogliatoio del
direttore di gara. E a
urlargli la sua rabbia. "Ero
furibondo - racconta - ho
ben presente il senso del
mio intervento: arbitro, lei
sta favorendo il Napoli, si
dia una regolata perché qui
finisce male. Non era una
minaccia, era quello che
provavo".
Ventuno marzo 1971. Il
Napoli si gioca lo scudetto
a San Siro. E' in piena
corsa. Assieme all'Inter e
al Milan. Proprio come
adesso. Finisce due a uno.
La squadra allenata da Beppe
Chiappella va in vantaggo
con Josè Altafini, poi
subisce la rimonta nella
ripresa. Doppietta di
Roberto Boninsegna. Ma il
match, teso e nervoso, è
segnato dalle decisioni
arbitrali che - giura ancora
oggi l'ex presidente Corrado
Ferlaino - favorirono
sfacciatamente i nerazzurri.
"Sì - spiega Mazzola - feci
una cosa proibita dal
regolamento. Sbagliata. Con
un arbitro internazionale
come Sergio Gonella. La
partita era di quelle
decisive. Il Napoli un
avversario forte. Con
giocatori di classe come
Dino Zoff, Juliano, Altafini.
Stava disputando un
grandissimo torneo. Noi,
dopo un inizio di
campionato-choc culminato
proprio con la sconfitta al
San Paolo all'andata, ko che
ci aveva fatto sprofondare a
sette punti dagli azzurri e
a sei dal Milan, eravamo
ripartiti alla grande,
complice una tabella stilata
da me, Tarcisio Burgnich e
Giacinto Facchetti e il
cambio dell'allenatore: via
il complicatissimo Heriberto
Herrera e dentro Gianni
Invernizzi, uno di noi.
Battere Juliano e compagni,
insomma, era vitale".
Il match si gioca nella
giornata di ingresso di
primavera ma a San Siro
sembra inverno. Cielo cupo e
terreno fangoso. Una
battaglia. A nervi scoperti.
Il primo tempo volge a
favore del Napoli. Che segna
con Altafini, opportunista
nel riprendere una respinta
in tuffo di Lido Vieri su
colpo di testa di Juliano e
conta anche sul vantaggio
numerico. "Cosa che ci fece
saltare i nervi - rievoca
Mazzola - perché
l'espulsione di Burgnich per
fallo su Umile non ci stava
proprio e arrivò durante una
fase in cui Gonella
fischiava in favore del
Napoli".
Sotto di un gol e in dieci
contro undici, l'Inter vede
svanire la grande rimonta.
Ma qui entra in scena uno
dei migliori attaccanti
della storia del calcio
italiano. "Finito il primo
tempo, mentre i compagni
sono nello spogliatoio, io
mi dirigo in quello
dell'arbitro Gonella. Entro
come una furia e lo
aggredisco verbalmente.
Rammento di avergli detto
che non poteva arbitrare in
quel mondo, che ci stava
penalizzando gravemente e di
aver usato qualche
espressione colorita il cui
senso era: o si dà una
regolata o da San Siro
usciamo tutti fritti: noi,
perché perdiamo partita e
scudetto e lei, perché con
il suo arbitraggio sarà
stato il principale
responsabile della
sconfitta".
I ricordi di Mazzola sono
vividi: "Gonella era
esterrefatto, mi disse
qualcosa del tipo: Mazzola
esca immediatamente da qui,
cosa blatera, ma come
diavolo si permette?".
Secondo tempo. Cambia
tutto. L'Inter attacca a
testa bassa e dopo neppure
dieci minuti ottiene un
rigore. Contestatissimo a
dir poco, anche quaranta
anni dopo. Un molto
ipotetico fallo di
ostruzione di Panzanato
proprio su Mazzola. Per
giunta, Boninsegna lo
realizza fermandosi
platealmente nella rincorsa.
Il Napoli perde la testa e
la partita. Zoff,
innervosito, compie una
delle sue rare papere non
trattenendo un colpo di
testa in acrobazia sempre di
Boninsegna. Lo scudetto
prende una sola strada e non
porta a Sud.
Mazzola ammette ma non
ammaina la bandiera
dell'orgoglio interista:
"Col senno di poi,
probabilmente, misi addosso
un tale senso di colpa a
Gonella che finii per
condizionare il suo
arbitraggio. Ma penso che
avremmo vinto lo stesso, in
quella squadra c'erano sei o
sette giocatori dell'Inter
che aveva dominato il
mondo". Sipario, il cold
case è risolto.
LE FOTO DEL MATCH
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all'inizio
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"IO,
PICCOLO FACCHETTI TRA I
GIGANTI DELL'INTER"
Il racconto vero e
appassionato di Gianfelice.
I ricordi di Giacinto, i
compagni di una squadra che
conquistò Coppacampioni,
Intercontinentale e
scudetti. i rapporti con
Sarti, Burgnich, Mazzola,
Guarneri. L'amicizia con
Boninsegna. E una
particolare collezione di
figurine
Articolo
di
Giovanni Marino
pubblicato da Repubblica.it (15
Dicembre 2010)
La prima immagine di papà Giacinto sui campi
è legata ad Appiano Gentile. Casa Inter,
insomma. "Ero piccolissimo, ricordo quelle
tute nero azzurre attorno a me che
correvano. Io li guardavo, mi sembravano
tutti giganti. Erano gentili, si divertivano
a farmi calciare un pallone. Sì, ero un
bimbo tra i giganti, un bimbo in un mondo
magico". Gianfelice Facchetti ha la stessa
aria pulita di suo padre Giacinto, lo stesso
tono sobrio ed elegante. Giacinto Facchetti:
in una parola una leggenda del calcio
nazionale e internazionale. Il primo terzino
sinistro a difendere e ad attaccare. Il
primo terzino sinistro a segnare come un
bomber. E a conquistare il mondo con
l'Inter. Giacinto se n'è andato qualche anno
fa, prima che l'Inter di Massimo Moratti
prendesse a vincere ovunque e a raffica.
Come lui avrebbe fortemente voluto.
Gianfelice, attore-regista di teatro, è uno
dei figli, impegnato nel custodirne i valori
e lo spirito. Con uno stile inconfondibile,
quello di casa Facchetti.
LA TIMIDEZZA DEL CAMPIONE - "Papà -
così apre il libro dei ricordi Gianfelice -
aveva molto pudore a parlare di sè come
giocatore. Non si è mai autocelebrato. Ha
vinto tutto, eppure non stava lì a
ricordarlo a nessuno. Tantomeno a noi.
Sembrerà strano ma solo negli ultimi tempi,
grazie a Roberto Boninsegna, con cui
pranzava spesso, prese a parlarne. Sembrerà
paradossale, ma io, suo figlio, in qualche
modo ho recuperato tutta la sua storia
sportiva da quando non c'è più. Così ho
scoperto quel papà così "normale" che
vinceva le Coppe Intercontinentali ed era
ammirato in tutto il mondo...".
NOTTE MAGICA COL LIVERPOOL - Ma di
tante galoppate sulla fascia, di tante
partite epocali, cosa era rimasto nella
mente del capitano della Nazionale? "La
partita di San Siro con il Liverpool, quella
su tutti. Ne avevano prese di santa ragione
in Inghilterra, 3 a 1 con cori di sfottò e
quel when the saints go marching in che
risuonava ancora nelle orecchie di tutti gli
interisti. Papà mi raccontava che al ritorno
fu tutto magico, che non aveva mai visto lo
stadio milanese così carico, al punto da
spingere letteralmente tutta la squadra alla
clamorosa rimonta. Finì tre a zero per la
Grande Inter e papà segno una grandissima
rete. Così la canzoncina degli inglesi
stavolta la cantammo noi, con qualche
parolina cambiata...".
LA MONETINA EUROPEA - Con l'Italia,
Giacinto ha raggiunto anche la finale
mondiale del '70, il torneo di
Italia-Germania 4 a 3. Tuttavia, dice
Gianfelice, della sua lunga e ricca carriera
azzurra, papà Giacinto amava ricordare un
trionfo passato anche per la dea bendata.
"La vittoria del campionato europeo a Roma,
nel 1968, lo inorgogliva e lo divertiva
anche per come era avvenuta. In semifinale,
a Napoli, finì zero a zero con l'Urss, anche
dopo i supplementari. Allora i rigori non
venivano proprio contemplati. Così fu il
lancio della monetina a decidere il
finalista. Il sorteggio favorì l'Italia che
poi affrontò due volte la Jugoslavia in
finale, la prima finì uno pari, la seconda
vincemmo per due a zero. Questo è il ricordo
più azzurro di mio padre".
L'INTERCONTINENTALE E LE MINI-COPPE -
Tra i successi di Facchetti, naturalmente,
le due Intercontinentali. "Che tempi:
figurarsi che il premio, mi raccontava papà,
allora consisteva nel potersi tenere la
maglietta con cui si era giocato e nella
consegna di piccole riproduzioni del trofeo
mondiale. Adesso sinceramente non so dove
siano finite le due mini-Intercontinentali,
devono essere da qualche parte. So, invece,
che la riproduzione della prima
Coppacampioni papà l'aveva data a sua
sorella".
PICCOLETTI TERRIBILI - Tante gioie e
soddisfazioni sui campi verdi, si perde
nella notte dei tempi il ricordo di un
Giacinto in difficoltà. "Beh, forte era
forte ma c'era un certo tipo di giocatore
che gli dava molto fastidio". Chi,
Gianfelice? "Mi raccontò di avere sofferto
le pene dell'inferno nel marcare quegli
attaccanti, ali soprattutto, piccoli di
statura e molto rapidi di gambe. Lui, così
alto, faceva una gran fatica. Mi parlò in
particolare di Giancarlo Danova, detto
Pantera, del Milan, con cui poi divenne
grande amico; e di Igor Cislenko, ala
sinistra dell'Unione Sovietica. Con loro,
ammise, non fu facile".
BONIMBA CHE AMICO - Ma chi era il
compagno di squadra più vicino a Giacinto?
Sorpresa, non proprio uno della Grande Inter
anni Sessanta, ma comunque sempre un
grandissimo nerazzurro come Roberto
Boninsegna, il goleador dello scudetto del
1971 e della Coppacampioni persa l'anno
successivo con il fortissimo Ajax di Cruijff.
"Già, Bonimba, che amico per papà. Ce lo
siamo ritrovati sempre vicino soprattutto
nei momenti brutti, quelli della malattia.
Sì, d'accordo, magari erano molto differenti
come indole e carattere, ma si trovavano nei
valori importanti. Nell'amicizia. Devo dire
grazie a Roberto Boninsegna per il tempo che
ha passato con noi, Bobo spronava il suo
vecchio compagno di squadra a uscire dal suo
riserbo, a ricordare. Quando doveva esserci,
Bonimba c'era".
SARTI, BURGNICH, FACCHETTI - Nello
scioglilingua che qualsiasi interista ha
mandato a memoria, altri rapporti di
amicizia. "Papà era legatissimo a Tarcisio
Burgnich, suo compagno di squadra nella
Grande Inter. E poi ad Aristide Guarneri,
con cui si vedeva spesso. Personalmente,
poi, mi ha davvero colpito Giuliano Sarti,
l'ho incontrato solo nel 2008 e,
ascoltandolo, mi sono reso conto di quanto
fosse simile e vicino a mio padre".
I RAPPORTI CON MAZZOLA - Nei filmati
di repertorio, un classico Inter è
l'abbraccio tra Sandrino Mazzola e Giacinto
Facchetti dopo le innumerevoli giocate
vincenti confezionate dai due. Eppure,
qualcosa, negli ultimi anni, si era rotto
tra il Baffo e il terzino goleador. "Sì,
c'era stato qualche screzio ed era calato un
certo gelo, non ne conosco i motivi; però
devo aggiungere una cosa importante -
afferma Gianfelice - quando qualcuno in
questi tempi balordi si è permesso di
diffamare mio padre, il primo a intervenire
con durezza per prendere le parti di chi non
c'è più è stato proprio Mazzola. Un giorno,
a una presentazione di un libro su mio
padre, dove c'era poca gente e nessuna
telecamera, intervenne Sandrino, di cui
avevo sempre sentito parlare senza mai
conoscerlo personalmente. Ebbene, disse cose
splendide su papà. Poi gli parlai e, con
grande umanità e umiltà, mi spiegò che sì,
erano stati davvero molto amici ma poi
qualcosa si era rotto. Aggiunse: "Ma forse,
se questo è accaduto è perchè ho sbagliato
qualcosa io, così come lui, insomma abbiamo
sbagliato entrambi". E' bello sapere che,
oggi, Mazzola difende sempre l'onore di
papà".
CAMBIASSO E LA NUMERO 3 - E oggi, c'è
ancora chi festeggia i nuovi trionfi
interisti con il numero 3 sulle spalle: è
Esteban Cambiasso. Un retroscena che
Gianfelice racconta con piacere: "Quando
l'Inter vinse il primo scudetto sul campo
del Siena, Cambiasso mi telefonò:
"Buonasera, sono Esteban, potrei avere una
maglia di suo padre, vorrei indossarla e
fare festa per il titolo che lui avrebbe
voluto vedere e vivere, sa ho conosciuto
Giacinto e mi sento molto legato a lui".
Gliela diedi, ne abbiamo pochine ormai, di
maglie. Il tempo passa, no? La indossò con
orgoglio. Poi me la riportò lavata e
stirata. Gli dissi: "Esteban, è tua,
tienila". Poi ha indossato ancora la 3 nella
notte di Madrid. Bello. Dei giocatori
attuali lui e Ivan Ramiro Cordoba sono i più
vicini a noi, assieme a Javier Zanetti".
I QUADERNI DEL MAGO - Difficile
scegliere tra i mille aneddoti che
Gianfelice ha ereditato da papà Giacinto.
Irrinunciabile quello su Helenio Herrera.
"Papà aveva una devozione per il Mago. Fu
lui a lanciarlo e soprattutto fu lui a
difenderlo perchè, sì, pochi lo
ricorderanno, ma all'inizio il pubblico di
San Siro prese di mira quel terzino così
alto che si spingeva così in avanti. Mago
Helenio non fece una piega e lo tenne in
campo. Coerente e coraggioso. I due si
stimavano molto. Non è un caso se poi
Herrera ha voluto che uno dei suoi celebri
quaderni con gli appunti sulla Grande Inter
finisse proprio al suo terzino. Ogni tanto
sfoglio quelle pagine e ritrovo anche mio
padre".
FIGURINE DI PAPA' - Gianfelice
continua a "recuperare" la memoria di quel
campione inimitabile e di quel padre così
discreto rispetto ai suoi successi. Uno dei
tanti modi è legato alle figurine. Spiega:
"Mi piace trovare tutte le sue immagini
sparse per il mondo. Raccogliere le figurine
di ogni tipo sparse per le varie nazioni.
Sono tantissime, non ci credereste. Foto di
ogni tipo, caricature comprese. Rivedo papà
Giacinto, rivedo tutte le sue espressioni.
Lo rivedo giovane, forte e campione".
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LE CONFESSIONI DI CAPITAN ZANETTI. "Dal
caos alle vittorie con l'Inter"
Il nerazzurro si racconta senza reticenze al
sito della Fifa: dai 4 allenatori in un anno
al primo successo a Parigi. Fino al triplete.
E poi i suoi rapporti con Baggio, Ronaldo e
Ibra, i segreti dello spogliatoio
argentino-brasiliano. Le gioie con il club,
le delusioni mondiali con l'Argentina e il
sogno-Messi
Articolo
di
Giovanni Marino
pubblicato da Repubblica.it (09
Novembre 2010)
Magari
uno pensa che il top in carriera sia stata
la Champions. Il trofeo dei trofei. E invece
scopre che per il capitano dell'Inter il
momento più bello e intenso, quello insomma
che ha sentito di più, va spostato molto
indietro: anno 1998, i nerazzurri di Gigi
Simoni si giocano la Coppa Uefa (allora si
chiamava ancora così) in un derby italiano
con la Lazio di Roberto Mancini (in campo,
giocatore a tutti gli effetti).
PARIGI
LA GIOIA PIU' GRANDE - Teatro del match il Parco dei
Principi, a Parigi. La partita si mette
subito bene con un gol lampo di Ivan
Zamorano. Ma la Lazio reagisce e si fa dura.
E' proprio lui, Zanetti, a spegnere le
speranze degli avversari. Un grandissimo
tiro dalla distanza che si insacca nel sette
della porta laziale. Un gioiello (raro, non
è certo un goleador) che vale la vittoria
finale (poi suggellata dalla segnatura di
Ronaldo). Tre a zero: è il primo importante
successo dell'era-Moratti. "Quella notte a
Parigi è stato il momento più bello di tutti
con l'Inter, io lo ricordo in modo
particolare perchè fu la prima vittoria con
il club e poi anche perchè ebbi la fortuna
di firmare una rete importantissima",
racconta Javier al sito Fifa.com in una
intervista-verità dove svela le gioie ma
anche le delusioni della sua vita interista.
IL MURO
NERAZZURRO DI MADRID - Parigi dunque, un po' a sorpresa.
E la Champions? "Ovviamente non potrò mai
dimenticare la notte di Madrid quando
abbiamo battuto il Bayern Monaco. Sarò
sempre orgoglioso del momento in cui sono
entrato nella storia alzando il trofeo da
capitano nerazzurro". Emozioni, tante, in
terra di Spagna. "Una su tutte, quando siamo
usciti per il riscaldamento. E' stata una
sensazione unica vedere il muro umano dei
nostri tifosi dietro la porta".
IO,
BAGGIO, IBRA E RONNIE
- Gli chiedono con quale fuoriclasse si sia
trovato meglio e lui fa capire che è Roberto
Baggio. Alla Fifa risponde con chiarezza ma
anche molta eleganza: "Roby è un grande
amico, sono felice di averlo conosciuto
fiero di aver giocato assieme a lui. Ritengo
che Baggio sia stato un giocatore
eccezionale, sicuramente il miglior italiano
che abbia mai visto in campo": E gli altri?
"Ronaldo è stato una forza della natura, un
tipo che poteva riuscire a vincere le
partite anche da solo. In allenamento non
riuscivo proprio a fermarlo... Ibra è uno
che può cambiare un match in un attimo con
quel fisico e quella forza di carattere".
GLI
ANNI BUI
- Javier non nega di averne viste di tutti i
colori nelle sue 15 stagioni milanesi. Un
lungo percorso, fino a giungere alle grandi
vittorie. Periodi sportivamente difficili e
sofferti che lui non ha dimenticato. E che
affronta rispondendo a Fifa.com: "Adesso
giocherò il Mondiale per club ad Abu Dhabi e
in tutto questo tempo non ho mai perso la
speranza di poterci arrivare. Sapevo sarebbe
stato difficile, perchè bisognava prima
vincere la Champions, ma dentro di me ero
certo che sarebbe giunto il nostro momento.
Non mi sbagliavo. Certo, abbiamo avuto
alcuni momenti difficili, li abbiamo
affrontati e ne siamo venuti fuori più forti
di prima. Il mio rapporto con il club è
saldo, lo è sempre stato, anche se giudico
la stagione 2000, quando si sono alternati
alla guida quattro allenatori in quello che
per me è stato un anno caotico, il periodo
più duro che ho vissuto in nerazzurro".
I 4
ALLENATORI
- In realtà qui il capitano fa un po' di
confusione sulla data. L'anno orribile
interista a cui si riferisce non è stato il
2000 ma la stagione precedente 1998-1999
quando il club cambiò la bellezza di quattro
tecnici: iniziò con Gigi Simoni, silurato
decisamente a sorpresa da Massimo Moratti
dopo una grande vittoria in Champions con il
Real Madrid (3 a 1 doppietta di Baggio
entrato nel finale) e una per 2-1 in
campionato in rimonta sulla
Salernitana-sorpresa dei giovanissimi Marco
Di Vaio e David Di Michele (e qui segnò
proprio Zanetti al '94). Come informa il
documentato sito www.storiainter.com gli
subentrò Mircea Lucescu (ma lo spogliatoio
non aveva dimenticato Simoni, reduce da uno
splendido torneo precedente chiuso al
secondo posto tra mille polemiche per il
famoso rigore negato da Ceccarini a Ronaldo
nel decisivo Juve-Inter del ritorno e dal
trionfo in Uefa). Il tecnico rumeno durò
poco: il 21 marzo rimediò un 4 a 0 con la
Samp e fece anche lui le valigie. Toccò a
"Giaguaro" Castellini accomodarsi (si fa per
dire) sulla panchina più calda d'Italia.
Appena un mesetto e, dopo il ko interno con
l'Udinese (1-3) prese il suo posto Roy
Hodgson per chiudere il campionato
all'ottavo posto. Un disastro perchè i
nerazzurri restarono fuori da tutte le
competizioni europee riuscendo a perdere
anche lo spareggio per un posticino in Uefa
contro il Bologna (doppio 2 a 1 in casa e
fuori). Un cammino appena più decente,
nell'anno dei 4 tecnici, fu quello
intrapreso in Champions (eliminati ai quarti
dal forte Manchester United) e in Coppa
Italia (fuori in semifinale col Parma).
Vista come andò, non c'è dubbio che Zanetti
si riferisca a questa stagione come quella
per lui più caotica e assieme dura.
ARGENTINI E BRASILIANI
- Domanda d'obbligo, come convive il gruppo
argentino (Zanetti, Diego Milito, Esteban
Cambiasso, Walter Samuel) con quello
brasiliano (Julio Cesar, Maicon, Lucio,
Thiago Motta, Mancini e l'ultimo arrivato
Coutinho)? "Come una grande famiglia dove si
vuole continuare a vincere a partire dal
Mondiale per club. Tutti qui hanno un ruolo
e tutti fanno la loro parte, non importa da
quale Paese provengano".
DELUSIONE SELECCION
- Javier, bandiera interista, non ha potuto
disputare gli ultimi due Mondiali con la sua
Argentina (in quello concluso in estate non
venne convocato, assieme a Cambiasso, dal ct
Diego Armando Maradona). Tema che affronta
senza tirarsi indietro: "Ho sentito lo
stesso dolore in entrambe le occasioni. Ero
più che pronto a rappresentare il mio Paese
sia nel 2006 che nel 2010. Ma non è stata
una mia decisione non esserci, tutto quello
che so è che ho fatto del mio meglio e
abbastanza per meritare un posto e questo mi
fa stare in pace con me stesso".
E SE
MESSI UN GIORNO...
- Nelle parole di Zanetti, per ben due
volte, ricorre il nome di Lionel Messi.
Associato all'Inter..."Ho giocato con tutti
i più grandi. E pure con Lionel ma soltanto
nell'Argentina, mi piacerebbe però giocare
con lui anche nell'Inter un giorno".
Chiarissimo. Al punto da citare ancora il
giovane fuoriclasse argentino nell'ultima
risposta: "Dove mi immagino tra cinque anni?
Ancora all'Inter, anche se probabilmente non
sarò più in campo accanto a Messi o a
chiunque altro. Mi piacerebbe svolgere un
ruolo importante qui. Ma tutto quello che
posso dire è che voglio restare con la
famiglia nerazzurra. L'Italia e questo club
sono parte di me". Firmato Javier "Saverio"
Zanetti.
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SUAREZ, LO SPECIALISTA DI COPPA. E HH DISSE: "Saremo
il nuovo Real"
Il regista della Grande
Inter racconta i segreti dello spogliatoio nerazzurro. E
parla di tutto: la carica di HH, i match con il Madrid,
il Benfica, il Liverpool. L'ammissione di essere più
interista che fan del Barca ai quali nel 1965 fece un
gestaccio durante un'amichevole
Articolo
di
Giovanni Marino
pubblicato da Repubblica.it (22 Maggio 2010)
Luisito.
O Luigi. Che importa? Suarez per tutti, quasi più
italiano che spagnolo, leggenda del calcio mondiale e
della Grande Inter, un mito con quei lanci millimetrici
quasi avesse avuto un mirino montato sugli scarpini; con
quella capacità di tenere la palla, stop perfetti,
dribbling da far girare la testa; industria umana di
assist, valanghe di reti fatte segnare ad altri,
qualcuna, bella e importante, siglata anche da lui.
Luisito-Luigi ha compiuto 75 anni. Con la maglia
nerazzurra ancora addosso: "Sono osservatore
internazionale per il club", dice con quel suo
particolare accento lombardo-galiziano così musicale e
chiaro. Tempo di Champions. "Io di finali ne ho giocate
tre e di Coppecampioni ne ho portate a casa due" e
Suarez racconta il fascino unico di quei successi. A
partire da una sconfitta, ma con un'altra maglia.
DELUSIONE CATALANA - Luis Miramontes Suarez è nato a La
Coruna ed è diventato il calciatore più forte del mondo
nel Barcellona. Nel 1960 è stato il primo e sinora unico
spagnolo a conquistare il Pallone d'Oro (escludendo
l'oriundo argentino Alfredo Di Stefano). Nei blaugrana
era una mezzala di classe cristallina. E lì raggiunse
anche la sua prima finale di Coppacampioni. "Nel 1961,
il 30 di maggio, eravamo i favoriti contro il Benfica,
in attacco avevamo gente come Kubala, Kocsis, Czibor.
Loro, invece, non avevano stelle ma Mario Coluna giocò
magnificamente e Santana era tecnicamente valido. Non
fecero errori, noi purtroppo sì. Così perdemmo per 3 a 2
a Berna e la delusione fu grande. Ma servì a farmi
capire che a quel livello non devi sbagliare, neppure
una volta. Una lezione che non avrei dimenticato".
IL
SEGRETO DEL PRATER - Anno di grazia 1964, Prater di
Vienna, 27 maggio: da una parte la leggenda blanca del
Real Madrid, dall'altra l'Inter "diciamo la verità, in
quel momento praticamente sconosciuta in campo
internazionale". Suarez era stato acquistato da Angelo
Moratti "per 25 milioni di pesetas, 250 milioni di lire
dell'epoca, un record, ma io ero il Pallone d'Oro e
l'Inter una squadra in costruzione. Il Real praticamente
vinceva la Coppa ogni anno, 4 o 5 di fila, una
dittatura. Roba da non scendere in campo e invece
Herrera fu bravissimo, ci disse quelle due o tre cose
che fecero la differenza a livello psicologico". Il
Mago, prosegue Luisito, affermò come fosse una verità
assoluta che "quelli di Madrid sono alla fine di un
ciclo, noi all'inizio; loro hanno fatto, noi adesso
dobbiamo fare; è il momento giusto, ragazzi noi
diventeremo il nuovo Real Madrid". Parole rimaste
scolpite nella testa dei calciatori. "Il Mago riuscì a
trasmetterci davvero questa convinzione, e dire che
dall'altra parte giocavano Alfredo Di Stefano, Puskas,
Gento, Amancio. Disputammo un partitone. In particolare
Sandrino Mazzola e Tagnin furono la chiave del successo.
Il primo, una furia scatenata, segnò una doppietta;
Tagnin non fece toccare palla a Di Stefano che sì, aveva
ragione il Mago, era in netto calo come tutto il
Madrid". Finì 3 a 1 e la "sconosciuta" Inter si affacciò
alla ribalta internazionale.
LA BALLA DEL CATENACCIO - Luisito ha voglia di parlare
di quel periodo, di raccontare tutto. E, come sostiene
convinto, di ristabilire qualche verità "dimenticata in
fretta". Cosa, Luis, in particolare? "La balla del
catenaccio. Spesso sento dire che eravamo forti solo
quando stavamo chiusi in trincea con Picchi, Burgnich e
Guarneri a spazzar via. Che falsità. Ma come fa una
squadra che schiera Suarez, Mazzola, Corso, Jair, Peirò
o Domenghini e un terzino che poi era un'ala come
Facchetti a essere considerata difensivista? La verità è
che nove volte su dieci i nostri avversari si chiudevano
e noi li assaltavamo. Però non eravamo mica scemi e in
certe partite, visto che avevamo la capacità e dico
anche la classe di arrivare in porta con due, massimo
tre passaggi, usavamo una tattica più attendista. Ma
giocavamo un bel calcio, altro che. Non si diventa
campioni del mondo e d'Europa e non si firma una
striscia di successi come quella semplicemente stando
chiusi in difesa. E poi mi chiedo: quante squadre, oggi,
sanno arrivare al gol con due o tre passaggi?". Un
vulcano Luisito, l'energia di un giovane
settantacinquenne.
LA RIVINCITA - San Siro, 1965, un altro 27 maggio: per
Suarez è l'ora della rivincita con il Benfica che lo
aveva sconfitto a Berna. "Ma a Milano piove da due o tre
giorni consecutivi e, sinceramente, non si può giocare a
calcio. Forse a pallanuoto, forse... Tuttavia allora non
si andava troppo per il sottile e ci fanno andare in
campo. E' una battaglia nel fango, con il pallone che si
ferma tra le pozzanghere, scivola improvvisamente sulle
fasce. Non è calcio, lo ammetto. Tuttavia Jair da Costa
indovina un buon tiro e il loro portiere, complice il
terreno, non lo trattiene. Uno a zero. Siamo noi il
nuovo Real Madrid, aveva ragione il Mago". Doppietta in
Coppacampioni. "La tripletta sfumò il 25 maggio 1967 a
Lisbona dove fummo sconfitti dal Celtic per 2 a 1: ma io
non giocai, avevo uno contrattura e non recuperai in
tempo; e fu assente anche Jair, altro infortunato. Non
so dire se con noi due in campo sarebbe andata
diversamente è un fatto, però, che allora le rose non
erano infinite. Non come oggi dove esce Balotelli ed
entra Sneijder; si fa male Samuel ed è pronto Cordoba.
No, allora eravamo contati".
IL GESTO DELL'OMBRELLO - Un ex giocatore che è stato un
campionissimo rimane campionissimo nella testa anche a
75 anni. Difende il suo passato, lo confronta con il
presente ed è un giudice severo. Giusto, per chi ha
vinto scudetti e coppe in due nazioni differenti
giocando un calcio elegante e classico. E per chi ha
l'Inter nel cuore: "Nella semifinale con il Barca
giocavano le "mie" due squadre, ma alla fine ho sperato
passasse l'Inter: i catalani hanno già vinto tanto, i
nerazzurri hanno bisogno di cominciare a farlo in campo
internazionale". Più nerazzurro che blaugrana Luisito,
ricordato ampiamente con una fotogalleria in un sito dei
fan del Barcellona - www. blaugrana. com - dove compare
una rarità: un Suarez furente che fa il gesto
dell'ombrello alla sua ex torcida catalana. Sotto
l'immagine la didascalia: "Venticinque agosto 1965,
l'Inter bicampione d'Europa gioca un'amichevole con il
Barcellona, sugli spalti sono in centomila e non
smettono un attimo di prendersela con il suo ex giocatore
che alla fine spiega il gesto: "Mi fischiavano senza
soste, feci el corte de manga e me ne andai"". Che
temperamento.
SORPRESA MATTHAUS - Immagini che Luisito si riveda in
qualche calciatore dal tocco felpato, tra Falcao e
Platini, per dirne due. Invece lui regala sorprese anche
su questo: "Da quando ho smesso a oggi non mi sono
ancora rivisto in nessun giocatore ma se proprio devo
fare un nome e per giunta interista scelgo Lothar
Matthaus". Il tedesco dal gioco potente e muscolare,
cosa c'entra con lei? "Sì proprio lui, magari come stile
mi somiglierà poco, ma aveva il mio stesso impatto sulle
partite, la mia stessa personalità, lo stesso carattere
vincente".
MOU E HH - "Molti mi chiedono - prosegue Suarez sul
filo del discorso del confronto ieri-oggi - se Mourinho
è come Helenio Herrera, mah... sono un po' scettico, è
troppo presto, io dico: vediamo se vince la
Coppacampioni e l'Intercontinentale un paio di volte di
seguito, calma con i confronti. Però, sia chiaro, io
tifo da matti per l'Inter e spero che Zanetti, Lucio,
Maicon, Milito, Pandev e compagni prima o poi diventino
come noi. Per farlo, però, hanno un'unica strada:
vincere in Europa. Magari cominciando da subito".
Firmato, Luis Suarez.
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LA VITA
MANCINA DI MARIO CORSO. "Io, tra Herrera, Pelè e
Berselli"
Inventò le micidiali
punizioni a foglia morta. Giocava con i calzettoni
abbassati come i sudamericani. E aveva un piede solo: ma
magico. Mariolino Corso, asso interista della squadra
che vinse tutto si racconta. A partire dal libro che
Edmondo Berselli gli ha dedicato
Articolo di
Giovanni Marino
pubblicato da Repubblica.it (21 Aprile 2010)
"No, tutto non l'ho letto. Ma i passaggi che mi
riguardavano quelli sì, come si dice? Me li sono
divorati...". Mariolino Corso non sa dire bugie. La sua
schiettezza è d'altri tempi in un'epoca dove la finzione
è la regola. Il "sinistro di Dio" degli anni Sessanta
parla a pochi giorni dalla scomparsa di Edmondo
Berselli, editorialista di "Repubblica", fine
intellettuale e scrittore senza barriere che gli dedicò
un delizioso libro: "Il più mancino dei tiri", edito da
Mondadori. Un volume in cui Corso appare in copertina,
impegnato a dribblare il mondo che, nel fotomontaggio,
si sostituisce al pallone. "Belle pagine, dove calcio e
vita si mischiano, che scrittore e che bella persona,
Edmondo", racconta Corso, icona interista di una squadra
che conquistò il mondo.
IO E LO SCRITTORE - "Lo conobbi a Chieti, dove ogni anno
si assegna un premio alla memoria di Peppino Prisco, il
dieci di maggio. La targa va a un presidente e a un
giocatore", dice Mariolino con quella voce roca che i
fan del calcio neroazzurro '60-''70 certamente
rammenteranno. "Berselli e io eravamo nella giuria che
doveva assegnare i premi e per alcune edizioni siamo
stati assieme a parlare, quando ci vedevamo. Anche
giornate intere. Discutevamo di tutto, lui di pallone ne
capiva, accidenti se ne capiva. E poi era simpatico e
alla mano nonostante fosse un pozzo di cultura, voglio
dire: non se la tirava, sai come certi tipi che invece
sembra che sanno tutto loro". Però lei non è un gran
lettore di libri..."Direi di no in assoluto, ho fatto
una eccezione per il libro di Edmondo, per quelle
pagine, insomma".
QUEL LIBRO UN ORGOGLIO - "Mi piacerebbe poter dire che
era nata una amicizia ma forse non è la parola adatta:
amicizia è quando ti frequenti a lungo e hai un rapporto
consolidato. Posso dire però che era nata certamente una
sintonia, ci trovavamo. E' stato un onore per me
conoscerlo, una personalità forte dalle conoscenze
vaste. Mi inorgoglisce pensare che Berselli ha dedicato
una parte del suo tempo a scrivere un libro su di me.
Bellissimo".
TERRORE E VITTORIA - Inevitabile parlare di Grande Inter
con un tipo da 502 gare, 94 reti (tra i primi 10 di ogni
tempo per presenze nerazzurre, come informa
"l'enciclopedia" informatica dei dadti interisti, il
sito www.storiainter.com), 2 Coppecampioni, 2
Intercontinentali. A partire dal primo trionfo, contro
la squadra, allora, ritenuta più forte al mondo, il Real
Madrid. Come pensavate di potercela fare con gente come
Puskas, Gento, Alfredo Di Stefano, detto "La saeta rubia",
il fulmine biondo? "Terrorizzati. Ha presente la fifa
nera? Noi eravamo terrorizzati al solo pensiero di
doverli incontrare. Ma Helenio Herrera era bravo a
motivarci, a dare la carica, era quello che sapeva fare
meglio. In campo, poi, si rovesciò tutto. Anche perché,
devo ammetterlo, scoprimmo che fisicamente eravamo molto
più freschi e reattivi noi. Che, insomma, li avevamo
presi alla fine di un ciclo, per carità, glorioso ciclo
in quel 1964. Il fattore fisico fu determinante". Chi la
marcava? "E chi se lo ricorda? Di quelle sfide lì ti
rimangono in testa solo i volti dei grandi giocatori e
io ricordo la rabbia impotente di Gento, la delusione di
Puskas, la grinta di Di Stefano che non si arrese fino
al fischio finale. Però tutti noi giocammo una gran
partita e sì, anche io". E iniziò una bella serie di
vittorie. "Già, con il Mago che ogni anno cercava di
vendermi a un'altra squadra, cosa impossibile perché
Moratti mi adorava e non lo avrebbe mai permesso. Ma lui
ci provava e me lo diceva pure: "Mario, per me dovevi
andare via ma visto che sei rimasto ora giochi". Hai
capito il personaggio che bella faccia tosta?".
PELE' IL MIO CAMPIONE - Quanti ne ha incontrati,
Mariolino. "Tanti ma se devo fare una classifica dubbi
non ne ho: Pelè è stato il più grande giocatore di tutti
i tempi. Inimitabile. Fortissimo di piede e di testa.
Classe e fisico. Corsa e resitenza. Sostanza e fantasia.
Che roba, ragazzi. A quei tempi capitava di incontrarlo
in amichevole perché Inter e Santos erano il massimo e
in tanti pagavano il biglietto per vederle. Lo incrociai
anche con la Nazionale. Pelè aveva molta simpatia per
me, avevamo un buon rapporto, era simpatico, sempre
sorridente. Della mia epoca, il più grande calciatore
con cui mi sia confrontato. E non credete a chi dice che
avrebbe fatto male in Europa: uno così fa bene ovunque".
CALZETTONI ALLA SUDAMERICANA - Pelè, completo. Mario
tutto e solo sinistro. "Meglio un piede solo che due
scarsi, è il mio motto", sorride Mariolino che, come
altri ex nerazzurri, fa l'osservatore per la società di
Massimo Moratti. Ma perché quei calzettoni sempre
arrotolati? "Era un omaggio. Al mio idolo: Omar Sivori,
lo adoravo. Lui giocava alla sudamericana e con i
calzettoni giù, lo imitai subito. In qualche modo fui il
primo europeo a metterli in quel modo. Mi dissi: se non
posso fare tutti quei tunnel e quei dribbling almeno
posso assomigliargli nel look", racconta con uno
spiccato senso di autoironia il sudamericano di San
Michele Extra. Rimasto ancora in stretto contatto con
alcuni compagni dell'epoca come Boninsegna, Bedin,
Domenghini e Suarez. "E vorrei sfatare una favola: con
Sandrino Mazzola il rapporto era ottimo, le polemiche
erano solo invenzioni". Nomi che richiamano successi
nazionali e mondiali. E i due gol a cui Mario il mancino
tiene di più. "Il primo lo misi a segno nello spareggio
di Madrid contro l'Independiente, finalissima
dell'Intercontinentale. Non che sia stato
particolarmente bello, ma era semplicemente decisivo.
Ricordo il cross di Peirò, io che stoppo di petto e
calcio. Campioni del Mondo nel secondo tempo
supplementare. Era il 1964, anno meraviglioso". Il
secondo richiama l'anno doro di Bonimba, il 1971:
"Quella punizione che mandò al tappeto il Milan nel
derby di ritorno, fu 2 a 0 per noi e vincemmo
l'undicesimo scudetto dopo una rincorsa clamorosa:
recuperammo 7 lunghezze quando per una vittoria ti
davano 2 punti, non so se mi spiego".
IL SEGRETO DELLA FOGLIA MORTA - Corso è stato
l'antesignano di quei giocatori micidiali sui calci di
punizione. Su tiro franco era un pericolo per gli
avversari. Partiva dal suo sinistro una traiettoria a
volte alta, a volte bassa, ma sempre tagliente e letale
che si afflosciava in rete lasciando immobili i
portieri. "Tutta colpa del mio primo allenatore, Nereo
Marini da San Michele Extra, il paese dove sono nato. Si
fissò sulle mie qualità di tiratore da fermo e mi
costrinse, giovanissimo, a esercitarmi quotidianamente
per 40 minuti alla fine di ogni allenamento. Tiri su
tiri. Così nacque la foglia morta". E il mito calcistico
di Mariolino calzettoni abbassati, solo sinistro,
punizioni che equivalevano a rigori, sempre sul mercato
e poi sempre titolare, vincitore su ogni campo. "Una
bella carriera, ne sono fiero. Qualche rammarico per la
Nazionale, ma ampiamente compensato da ciò che ho fatto
nell'Inter. Al punto da finire in un libro di Berselli.
Chi lo avrebbe mai detto: io, calciatore di San Michele
Extra, con un piede solo".
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IO IL BARCELLONA L'HO BATTUTO. AGLI SPAGNOLI
SI FA GOL COSI'
Tre gol in tre partite.
Compresa una sospesa.
Una rete fondamentale al
Nou Camp.
E' il record di Roberto
Boninsegna, gloria
nerazzurra e unico
interista ad aver
segnato e battuto il
Barcellona.
Articolo di
Giovanni Marino
pubblicato da Repubblica.it (16 Aprile 2010)
"Fu
tosta, ma vincemmo contro gli spagnoli. Ed è
una delle soddisfazioni che ancora oggi
porto con me". L'unico nerazzurro ad aver
battuto il Barcellona segnando sia
all'andata che al ritorno (e nel mezzo,
addirittura in una terza gara sospesa per
nebbia, quindi una tripletta di fatto), ha
sempre avuto un destino nel nome: Roberto
Boninsegna. Il terzo capocannoniere assoluto
nella storia centenaria interista riuscì
nell'impresa nel suo primo anno con l'Inter.
Correva il 1970 e Bonimba, come ancora oggi
lo chiamano i suoi inossidabili fans, era
appena approdato alla corte del presidente
Fraizzoli. "Fu un grande momento, il Barca
è, da sempre, una delle migliori formazioni
del mondo", dice senza fronzoli, quasi
brusco, com'è nel carattere di questo ex
centravanti che nella vita e nella carriera
si è sempre fatto rispettare andando avanti
da solo, a suon di portieri battuti e
stopper beffati. Senza raccomandazioni,
sponsor e con poca diplomazia, ma con tanta,
tanta sostanza in campo. Lui, nato
nell'Inter, innamorato dell'Inter, tornava a
casa. (Ri)acquistato dal Cagliari di Gigi
Riva e non per due soldi. Ai rossoblu
andarono tre calciatori del calibro di
Domenghini, Gori e Poli. E in quel '70 lo
scambio sembrò dare ragione ai sardi che
vinsero il primo, unico, clamoroso scudetto
proprio davanti ai lombardi. Ma i sette anni
di Boninsegna milanese avrebbero poi
riequilibrato quel giudizio: con il numero
nove al centro dell'attacco, la squadra di
Gianni Invernizzi vinse in eclatante rimonta
il tricolore dell'anno seguente; quindi
raggiunse l'ultima finalissima di
Coppacampioni arrendendosi solo all'Ajax del
divo Cruijff e il bomber conquistò per due
volte il titolo assoluto di capocannoniere
(in anni in cui c'era da giocarsela con
attaccanti fenomenali, qualche nome: Gigi
Riva, Paolino Pulici, Giorgio Chinaglia,
Pietro Anastasi, Luciano Chiarugi, Pierino
Prati) . "Diciamo che lo scambio andò bene
sia all'Inter che al Cagliari, alla fine",
taglia corto Roberto, quasi dovesse
liberarsi con una gomitata di un difensore
assillante sotto veste di una domanda non
proprio gradita.
FRANCO, LE RAMBLAS E LA FESTA - Ma andiamo a quella
sfida in Coppa delle Fiere. "Non si può dimenticare, ma
i dettagli beh, è roba di quaranta anni fa, non
chiedetemi di rammentare tutti i particolari", gioca
d'anticipo il goleador che unisce diverse generazioni di
tifosi (anche grazie ai filmati di YouTube che lo
mostrano ancora oggi ai più giovani nelle sue acrobazie
in area di rigore). Le cronache dicono che il 14 gennaio
1970 si giocavano gli ottavi di finale della prestigiosa
Coppa delle Fiere - oggi assimilabile all'Uefa League -
e che l'Inter era attesa a Barcellona nel celebre Nou
Camp. Si va in campo in una Spagna ancora dominata dal
franchismo ma dove Francisco Franco, appena un anno
prima, aveva nominato il suo erede in Juan Carlos I di
Borbone (che alla sua morte, nel 1975, sarebbe stato
incoronato re). L'Inter gioca dunque in uno dei tempi
del grande calcio. E qui Bonimba ti sorprende per la
nitidezza di certi ricordi: "Quello stadio era da
brividi. Mamma mia, ti perdevi a girarlo tutto. Ce lo
fecero visitare perché era un gioiello, c'era persino
una piccola chiesa, lì dentro. E poi gli spalti,
l'accuratezza degli spogliatoi, il lungo sottopassaggio,
insomma, tutto ti intimoriva già prima di calcare il
prato". Intimoriti, voi? "No, no, che c'entra, dicevo in
generale perché noi personalmente non eravamo tipi da
disorientarci troppo, tanto che una volta in campo prima
io e poi Mario Bertini andammo in gol". Già, difficile
immaginare grossi imbarazzi in una formazione che nel
match iberico schierava Vieri, Burgnich, Facchetti,
Bellugi, Landini, Cella, Suarez, Mazzola, Boninsegna,
Bertini, Corso. C'era ancora un bel po' di Grande Inter,
insomma. "La buttai dentro quasi subito - continua
Bonimba - poi loro ci ripresero e Mario (Bertini, ndr),
ci riportò in vantaggio. Credo tutto nel primo tempo.
Nella ripresa fu un assedio ma la nostra difesa
difficilmente prendeva due gol in una stessa
partita...". Quasi perfetta la sua ricostruzione: gol di
Bobo al settimo, pari della mezzala Fustè al ventesimo e
nuovo soprasso nerazzurro al trentaduesimo. Inutile
predominio blaugrana nel secondo tempo e qualificazione
che prende la strada di Milano. "C'erano parecchi nostri
tifosi e fecero una festa incredibile per le ramblas, ma
io sapevo che sarebbe stata ancora dura. Se c'era ancora
il franchismo? Sinceramente rammento solo che quella
sera la Spagna mi sembrò bellissima". Succede quando si
vince su un campo che ha fatto la storia del football.
LA PARTITA SPARITA E I GOL SOTTRATTI - Poi Bonimba ha un
lampo: "Aspetta un attimo: ma se non ricordo male
giocammo tre volte contro il Barca". Tre volte? "Sicuro,
una fu sospesa per nebbia ma eravamo in vantaggio e
indovinate di chi era il gol? Mio...". Un precedente
sparito da tutti gli almanacchi. Ma Bobo ha ragione,
come testimonia il più completo (e incredibile) archivio
informatico sulla storia dell'Inter che si deve a un
ragioniere, Tommaso De Lorenzis, ideatore di www.
storiainter. com, un diluvio di dati, formazioni,
notizie, immagini, match ufficiali e amichevoli,
imperdibile per un interista. La partita rinviata si
disputò il 28 gennaio 1970 e Bonimba al quindicesimo
siglò il vantaggio lombardo. Inutile perché,
implacabile, la nebbia al trentatreesimo mise fine alla
contesa. "Gol non conteggiati perché c'era la nebbia o
la neve, gol non conteggiati perché c'era stato il 2 a 0
a tavolino per intemperanze del pubblico, gol non
conteggiati per ininfluenti deviazioni che li
trasformavano in autoreti: sinceramente me ne sono state
sottratte molte di segnature e con i regolamenti
odierni, dove ti attribuiscono la rete basta che il tiro
è partito da te, i numeri dei miei gol sarebbero molto,
molto più grandi", si lamenta Boninsegna. Aggiunge:
"Persi il mio terzo titolo assoluto di capocannoniere
per un autogol che non lo era...". Difficile dargli
torto.
QUELL'ALA DI CLASSE - Si decide tutto il 4
febbraio. L'Inter, rispetto all'andata, recupera Jair
(che nel corso della gara sarà sotituito da Reif, mentre
Suarez lascerà spazio a Corso). "Non fu semplice, il
Barcellona ha nel suo Dna il non arrendersi mai e poi
c'era un'ala col nome strano (Rexach, una delle colonne
del team, attaccante tecnico ma anche di temperamento
che giocherà di lì a qualche anno con Cruijff e Neeskens
in un Barca stellare) che ci fece ammattire. Feci ancora
gol all'inizio (18') ma l'ala spagnola pareggiò subito
(29') e la gara restò in equilibrio fino al termine. A
noi stava bene il pareggio: e passammo il turno". La
corsa dell'Inter di Heriberto Herrera si fermò in
semifinale con l'Anderlecht ma quel risultato resta tra
le vittorie di prestigio nerazzurre. "E mi ha insegnato
una cosa: quando incontri squadre così grandi, hai una
sola possibilità per superarle: attaccarle. Non sono
abituati a subire. In quei tre match, in certe fasi, noi
ci comportammo così. Se invece indietreggi fai una
frittata". E Bobo, sangue nerazzurro nelle vene, indica
la strada ai suoi eredi: Milito, Balotelli, Etoo,
Sneijder. "Ragazzi fortissimi, capaci di ogni cosa. E
più fortunati di noi a quei tempi": Perché, Bonimba?
"Perché nell'unica Coppacampioni interista che disputai
arrivammo fino in fondo, era il 1972, ma la finale era
fissata in Olanda, praticamente in casa dell'Ajax.
Invece adesso se si arriva all'atto finale si giocherà a
Madrid e senza squadre spagnole. E, mi creda, non è
poco...".
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VI RACCONTO L'ULTIMA FINALE DELL'INTER. LA COPPA VALEVA
10 MILIONI DI LIRE
Era il
1972 e Giubertoni costituiva con
Burgnich, Bellugi e Facchetti la Maginot
dell'ultima Grande Inter capace di
arrivare in finale di Coppa Campioni.
L'ex stopper svela come quella squadra
giunse a un passo dal trofeo
Articolo di
Giovanni Marino
pubblicato da Repubblica.it (31
Marzo 2010)
"Le
confesso un segreto: davvero questa non l'ho
mai raccontata. Ha presente quella battaglia
di Glasgow contro il Celitc in semifinale?
Mamma mia, noi in trincea e loro che
arrivavano da tutte le parti. Con Tarcisio,
Giacinto, Mauro e Lele, lo posso dire,
alzammo un muro là dietro in difesa. Zero a
zero come all'andata. In ballo c'era la
finale. Finì ai rigori e il sesto rigorista
dell'Inter ero io. Così aveva deciso Gianni
Invernizzi. Ma vincemmo 5 a 4: fortuna che
gli scozzesi sbagliarono e Jair no, perché
nella mia vita non ho mai calciato un rigore
e non so proprio come avrei fatto. Mise
tutto a posto il nostro brasiliano, che
giocatore". Retroscena e ricordi dall'ultima
grande campagna interista in Coppacampioni:
stagione 1971-72, quando i nerazzurri
raggiunsero la finale."Quel torneo è il
massimo per uno che di mestiere fa il
calciatore, credetemi", spiega con fresco
entusiasmo Mario Giubertoni che di quella
squadra (Mazzola, Boninsegna, Corso,
Burgnich, Facchetti, Oriali per fare qualche
nome) era un gregario, sì, ma davvero
prezioso. "I piedi non erano dolci, ma di
correre correvo, marcavo a uomo, avevo
scatto e gran fisico e soprattutto lasciavo
ogni energia sul campo: sarà per questo che
ho sempre giocato", si descrive così il "Giube",
1 scudetto, 1 finale di Coppa dei Campioni,
154 gare e 1 rete nei 7 campionati
nerazzurri, 21 presenze nelle rassegne
europee, 39 e 1 rete in Coppa Italia. Quasi
non fossero trascorsi 38 anni da allora,
Mario rivive quell'esperienza rammentando
dettagli e svelando aneddoti di una squadra
e di un calcio ancora carichi di
suggestioni. "Io le giocai tutte tranne una,
ecco come arrivammo fin là. Che so? Magari
porta bene agli interisti di oggi", sorride
dalla sua casa nel modenese, tradendo ancora
un forte attaccamento per quei colori, e per
quelli rosanero del Palermo, le due
formazioni in cui si è affermato come un
difensore arcigno e difficilmente superabile
nei suoi anni migliori.
MAZZOLA, BONIMBA E LA REGIA DI INVERNIZZI -
"Dunque la prima fu con l'Aek Atene, esordio
a San Siro. Io stavo addosso a un peperino,
un piccoletto micidiale, nome da
scioglilingua. Passammo in svantaggio, poi
Mazzola, Facchetti, Jair e Bonimba misero
una ipoteca sul passaggio del turno. Ma
Atene, al ritorno, chi se la dimentica? Il
pubblico si faceva sentire, l'arbitro ne era
condizionato e i nostri avversari sembravano
come sospinti dai tifosi. Perdemmo 3 a 2 e
passammo il turno. Negli spogliatoi guardai
in faccia i compagni: capii che saremmo
andati lontano". Ma come era quello
spogliatoio, quegli ultimi sprazzi da Grande
Inter, chi comandava e cosa faceva
l'allenatore per farsi sentire? "Allora, per
capirci, quando hai in squadra gente tipo
Corso, Facchetti, Mazzola, Jair, Boninsegna,
Burgnich, Bedin, Bertini, Frustalupi,
l'allenatore serve solo a mantenere il
giusto equilibrio e l'armonia più fuori che
dentro al prato verde. Perché lì, questa
gente, ne sa più di qualsiasi allenatore e
va in automatico. Tu ai Mazzola, ai
Facchetti, ai Boninsegna e ai Corso cosa
potevi mai insegnare? Ecco, Invernizzi era
bravo a gestire gli equilibri e ottenne in
due anni fantastici risultati: lo scudetto
della rimonta sul Milan (eravamo a meno
sette) e la finale di Coppacampioni l'anno
successivo. Quanto mi manca Gianni".
CHE BOTTE CON HEYNCKES - Arriva lo scontro,
passato alla storia del pallone, contro il
Borussia di Netzer. Ci vogliono tre partite
per capire chi passa. "Ma la prima non conta
- ci tiene a precisare il "Giube"- quel
sette a uno è falso come Giuda. Bonimba
prese una lattina in testa quando eravamo
sul 2 a 1 per loro e per noi era finita lì.
Eravamo certi del 2 a 0 a tavolino e
giocammo come fosse un allenamento, senza
impegno. Quel 7 a 1 è una favola tanto è
vero che poi a Milano gliene rifilammo 4 (a
2) con Mauro Bellugi che fece un gol da
cineteca che non avrebbe mai più fatto e poi
ancora Bonimba, Jair e Ghio. Certo, il
ritorno a Berlino fu un assedio: ma Ivano
Bordon fu letteralmente miracoloso, parò
pure un rigore a Sieloff e io, in
quell'assalto durato novanta minuti, la
palla l'avrò presa sì e no due volte". Due
volte e basta? "Sì, perché marcavo il grande
Jupp Heynckes ed entrambi trascorremmo
quella serata a fare a botte: spintoni,
calcioni, gomitate, sgambettii. Un corpo a
corpo. Alla fine uscii dal terreno come un
pugile, ammaccato e tumefatto, ma vincente".
E non espulso..."Ma io ero fisico, mai
violento. Nella mia carriera mi hanno
buttato fuori solo una volta. Giocavo nel
Palermo e marcavo quel dribblomane
talentuoso di Claudio Sala. Un tipo che mi
piaceva perché le prendeva e le restituiva,
ma non stava lì a piangere. L'arbitro ci
richiamò e noi niente, continuammo a
pestarci. Alla fine ci cacciò entrambi e con
ragione".
SOFFERENZA LIEGI - "Nei quarti, dopo aver
superato il Borussia, ci sentivamo sicuri di
poter fare fuori facilmente lo Standard
Liegi. Che errore: a San Siro faticammo da
matti per vincere uno a zero con gol di Jair.
Loro avevano un portierone: Piot, che era
anche quello della nazionale. E a Liegi
rischiammo l'eliminazione. Andammo sotto e
quando si faceva nera una splendida azione
di Pellizzaro a dieci minuti dalla fine
mandò Mazzola in gol. Era fatta. Il 2 a 1
finale non contava nulla. Ci aspettava il
Celtic Glasgow".
FINALE DI RIGORE - "Non giocai l'andata per
infortunio. Nel ritorno marcai il loro
centravanti: un gran giocatore. Loro davanti
avevano calciatori come Dalghish, Macari e
Johnstone, abili e potenti. Un giovanissimo
Lele Oriali fece un partitone proprio contro
Johnstone. Fu durissima. E, come ho detto,
prevalemmo ai rigori: Mazzola, Facchetti,
Frustalupi, Pellizzaro e Jair furono
implacabli. Per loro sbagliò Deans e tanto
bastò. Mi sentii uno dei più forti d'Europa
perché ero in finale nella Coppa dei
Campioni".
CRUIJFF, IL MIGLIORE - "Che sfortuna: la
finale si giocava a Rotterdam, praticamente
in casa dell'Ajax. Ci credevamo lo stesso:
Invernizzi mi disse di marcare Muhren, il
loro centravanti arretrato e siccome
indietreggiava mi consigliò di spingermi
anche in avanti. Lo feci, ma al dodicesimo
del primo tempo durante un mio spunto
offensivo Blankenburg mi sfasciò la caviglia
con una entrata-killer. Fui costretto a
uscire, sostituito da Bertini. Guardai il
resto del match dalla panchina e vidi uno
spettacolo, per allora, assolutamente
inedito: il calcio totale all'olandese.
Cruijff per me era e forse resta il migliore
calciatore del mondo: aveva tutto, era un
leader, col suo scatto lasciava chiunque
dieci metri dietro, tirava, passava, colpiva
di testa, scartava, lanciava. E poi Haan,
Suurbier, Neeskens, Krol, Keizer. Cedemmo
nella ripresa: due volte Cruijff. La prima
per una incomprensione tra Oriali e Bordon,
giovanissimi ma già bravissimi. Può
succedere. Il mio sogno finì lì".
UN PREMIO DA 10 MILIONI DI LIRE - Davvero
altri tempi il calcio anni Settanta:
"Avessimo vinto il premio sarebbe stato di
dieci milioni di vecchie lire se non ricordo
male", sorride Giubertoni che dopo il calcio
ha fatto "prima l'artigiano in una azienda
di maglieria e poi il coltivatore di pere in
una campagna di mia proprietà": Adesso, a 65
anni, è in pensione e si gode la
tranquillità: "Sono in pace con me stesso,
avrei anche il patentino da allenatore ma
non fa per me. Si vive, e bene, anche senza
calcio. Ma chi la dimentica quella
Coppacampioni: ho ancora le maglie di Aek,
Borussia, Standard, Liegi, Celtic e Ajax che
ci scambiavamo a fine match. E poi, scusi,
quando sono uscito, a Rotterdam, eravamo
ancora imbattuti e come mi diceva il
presidente Fraizzoli, "Caro Giube, ci fossi
stato tu in campo non avremmo mai perso".
Mentiva, una affettuosa e simpatica bugia
che però mi inorgoglisce ancora oggi e mi
riporta a quella splendida avventura
sportiva".
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LE CONFESSIONI DI BONIMBA: "Quando segnai di
pugno"
Boninsegna svela i retroscena di una
carriera da goleador.
A partire da una delle prime reti realizzate
con la mano. In un Inter-Lazio di 36 anni fa
di
Giovanni Marino
pubblicato da Repubblica.it (24
novembre 2009)
Roberto
Boninsegna ha compiuto 66 anni. In
nerazzurro. "Faccio l'osservatore per
l'Inter", dice con orgoglio e competenza.
Perché Bonimba, indimenticabile goleador
degli Anni Settanta, si è sempre sentito
interista nell'animo. "Che dispiacere quando
Fraizzoli mi cedette alla Juventus". E che
dispiacere diede ai Bauscia quando rifilò
due gol alla sua Inter in maglia bianconera:
"Non fu una vera esultanza, la mia, ma solo
una reazione di pura rabbia, caspita: io
volevo stare dall'altra parte...". Roberto
apre il libro dei ricordi e dei segreti
nerazzurri. A partire da un caso tornato di
prepotente attualità: il colpo di mano.
Quella giocata "sporca" che ha mandato la
Francia di Henry ai Mondiali a scapito
dell'Irlanda di Trapattoni.
LA RABBIA DI FELICE PULICI - "Accadde anche
a me di segnare con la mano. La sinistra,
ovviamente", dice il mancino naturale
tuttora al terzo posto tra i cannonieri di
sempre dell'Inter. E racconta, con una
straordinaria capacità di ricordare i
dettagli: "C'è il sole ma fa freddo quella
domenica di gennaio del 1973, a San Siro.
Tanta gente sugli spalti. La Lazio di
Maestrelli è la squadra rivelazione e si sta
avvicinando a quel titolo che avrebbe colto
l'anno successivo. Il match si mette subito
male e Giorgione Chinaglia manda i
biancocelesti in vantaggio su un giusto
rigore. Noi stentiamo da matti. Ma nella
ripresa ci gettiamo all'attacco un po'
tutti. A un certo punto mi arriva un cross.
Basso e veloce. Credo di Lele Oriali. Mi
getto a corpo morto, sento la palla sfiorare
i capelli e contemporaneamente, d'istinto,
allungo il pugno sinistro. Che spinge la
palla in rete. Praticamente un cazzotto.
Pulici, il portiere, è incredulo. Per un
attimo, poi si arrabbia".
L'URLO DI MASSA - Gol, uno a uno. Il
pubblico esplode. "Io no, non esulto perché
mi aspetto che l'arbitro annulli. Ma poi,
alle mie spalle spunta Peppiniello Massa, la
nostra ala destra, piccolino ma tecnico e
poi simpaticissimo, praticamente uno
scugnizzo napoletano e mi dice: "E' gol, è
gol, dai abbracciami, abbracciami, forza
Bobo muoviti, è il pareggio". E io lo faccio
mentre Felice Pulici, giustamente impazzisce
perché è l'unico avversario che ha visto
davvero bene come è andata. L'unico
testimone oculare al cento per cento". E
l'arbitro, e il guardalinee? "Li assolvo
perché, per come andò l'azione, era
impossibile capire: la testa, i capelli,
coprivano il pugno e allora, a parte una
moviola dove si vedeva poco e male, non
c'era altro mezzo tecnologico. Pulici e
Massa sì che avevano visto, e forse, ma non
benissimo, qualcosa aveva intuito anche Pino
Wilson, il libero laziale". Soltanto la
domenica sera e poi il lunedì con maggiore
chiarezza venne fuori il "misfatto". "Già,
ma quando nel dopo partita i giornalisti mi
chiesero non negai: "Sì, l'ho toccata",
risposi. Ho sempre cercato di agire nelle
regole io e se chiedete a compagni e
avversari dell'epoca vi diranno che cadevo
in area solo se venivo letteralmente
abbattuto, altrimenti restavo in piedi fino
all'ultimo".
STAVOLTA TI FREGO IO - Bonimba le ha date e
la ha prese dai difensori avversari. Ma
tutti lo hanno sempre considerato un
giocatore leale. In quel caso che successe?
"Ragionai così: se l'arbitro me lo chiede
ammetto che è un gol di mano. Altrimenti
penso a quanti me ne hanno tolti
ingiustamente i direttori di gara, a quanti
rigori non mi hanno concesso e non dico
nulla. Perché è questo che scatta nella
testa dell'attaccante: una piccola rivincita
con l'arbitro e i guardalinee rispetto ai
torti subiti in precedenza (questo, assieme
al fatto che sai benissimo che il risultato
del match è sempre determinante per la tua
squadra). Della serie: dai che stavolta vi
ho fregati io... E poi, non per scusarmi, se
non avessi avuto quel diavolo di un Massa
vicino forse mi sarei fermato a braccia in
giù e l'arbitro avrebbe capito. E comunque
non era la gara decisiva per andare alla
Coppa del Mondo e non era evidente nè come
quello annullato in Nazionale a Pazzini nè
come il colpo di Henry": Brutta quella cosa
con la Francia, vero? "Tremenda per gli
irlandesi, ma lì arbitro e guardalinee cosa
facevano, dormivano? Purtroppo non si può
fare più nulla. Il calcio ha le sue, magari
discutibili regole, e non si può ripetere la
partita. Non è mai accaduto e non accadrà".
A LEZIONE DA MEAZZA - Sessantasei anni,
Bonimba, saluta la ricorrenza scorrendo i
retroscena dei momenti particolari della sua
carriera. "Beh, vedo come fosse oggi quando
tornai all'Inter dopo gli anni di Cagliari.
Che gioia pazzesca. Io avevo fatto tutta la
trafila nelle giovanili. Poi il Mago,
Helenio Herrara, mi mandò via, che
sofferenza per me che ho sangue nero e
azzurro nelle vene. Rientrare a casa, in
quel 1970, fu il massimo. Vincere lo
scudetto nel '71 e arrivare in finale di
Coppacampioni l'anno dopo contro l'Ajax di
Johan Cruijff, due imprese che porto nel
cuore. Ma torniamo all'inizio di tutto:
quando ero ragazzino ebbi la fortuna di
essere allenato da un signore chiamato
Giuseppe Meazza. Un monumento del calcio
italiano. Mi incuteva timore: lo vedevo
enorme, così serio, lo sguardo gelido.
Invece era una pasta d'uomo e un profondo
conoscitore di calcio. Che mi insegnò molto
e mi cambiò la vita trasformandomi in
bomber. Originariamente giocavo all'alla
sinistra e mi piaceva servire assist ai
compagni, mandarli in rete. Presto, però,
capii che c'era poca gloria per chi non
entrava nel tabellino dei marcatori e presi
a calciare con maggiore frequenza in porta.
Peppino Meazza comprese che ci prendevo
abbastanza e mi spostò al centro
dell'attacco. Da dove non mi sarei più
mosso".
IL SEGRETO DEI RIGORI - "Fece di più Meazza
- rammenta Boninsegna - mi rivelò un piccolo
grande segreto del calcio: come si tirano i
rigori. Una cosa che mi sono portato a lungo
con me nell'Inter dove, ad un certo punto,
ne segnai davvero molti, uno di seguito
all'altro. La magia si infranse un
pomeriggio a Firenze quando il portiere
viola Superchi distendendosi sulla sua
destra, deviò il mio penalty in angolo. Cosa
mi disse il Maestro Meazza? Un dettaglio che
risultò decisivo: "Roberto, non prendere mai
la rincorsa centralmente, non lo fare mai.
Scegli sempre una via laterale: o la destra
o la sinistra. Il portiere non capirà".
Aveva ragione, ovviamente".
IL GOL PIU' BELLO DI TUTTI - Ne ha fatto
tanti in nerazzurro: "Centosettantuno gol,
ma bisognerebbe aggiungerci 5 reti che mi
hanno ingiustamente sottratto perché ci
assegnarono delle vittorie a tavolino.
Ricordo a Roma, con i giallorossi vincemmo 2
a 1, doppietta mia e invasione di campo dopo
il rigore messo a segno al novantesimo.
Conseguenza, 0 a 2 a tavolino e niente reti
per me", dice con ancora chiaro rammarico.
Il più bello? Nessun dubbio, la fantastica
rovesciata di Inter-Foggia 5 a 0 (video),
il match che sancì la matematica conquista
dell'undicesimo scudetto interista, stagione
'70-'71. "Colpi così ne vengono fuori uno,
massimo due in una intera carriera. Quando
vidi Giacinto Facchetti crossare compresi
che non potevo fare altro che tentare di
avvitarmi all'indietro e calciare mentre il
pallone era alto, per aria. C'era il rischio
di ciccarla, quella palla, o di spedirla
fuori da San Siro. Venne fuori una
esecuzione magnifica. Pensate, il portiere
del Foggia, Raffaele Trentini, ancora oggi
mi ringrazia con grande ironia: "Sai Bobo,
l'hanno trasmessa così tante volte quella
rovesciata che sono diventato famoso anche
io". Ma ribadisco sono di quei colpi non
puoi neppure pensare di ripetere un'altra
volta nella tua vita sportiva. Di reti
spettacolari ne ho segnate altre,
come quando rischiai di spaccarmi la testa
in un Inter-Napoli, ma quella al Foggia
è una perla unica".
LA LATTINA E LA RIVINCITA - Ultimo
flashback, inevitabile, i due matches col
Borussia di Netzer. A 66 anni compiuti,
Bonimba, giuri che la lattina di quel tifoso
tedesco la mandò ko? "Svenni. Persi
totalmente i sensi. Per qualche minuto. Fu
una botta forte alla testa. Nessuna scena.
Quando rinvenni avevo davanti il volto
preoccupato del massaggiatore Della Casa.
Tra il primo e il secondo tempo, negli
spogliatoi, scese il commissario Uefa, che
mi toccò la fronte preoccupato. Il nostro
medico, Quarenghi, mi disse che non potevo
tornare in campo. Quel 7 a 1 è un falso
storico, uscii io e poi si fece male Jair Da
Costa, eravamo in 10 e per di più, mi disse
Sandrino Mazzola, l'arbitro dopo la lattina
aveva fatto dei segni inequivocabili, come a
dire: giocate pure, tanto il risultato del
campo non sarà questo. E infatti, nel replay
a campi invertiti, vincemmo 4 a 2 alla
grande. Io segnai la seconda rete. Ci fu un
cross che passò tra Jair e un paio di
tedeschi, arrivai di corsa e la buttai
dentro col sinistro". Immagini degli anni
felici di Bonimba nerazzurro. Che conclude
alla sua maniera: "L'ho detto: non ho mai
fatto scena. E ora che ci ripenso mi spiace
per quel gol di pugno e per Felice Pulici,
che era un gran portiere. Ma fu un riflesso.
E non mi accadde mai più".
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INTERVISTE
SENTIMENTALI / PARLA MASSIMO MORATTI
di
Stefania Rossini
Il mio successo? Lo devo
a un Angelo
La consacrazione è avvenuta a cinquant'anni. Ma
prima il presidente dell'Inter non ha perso tempo.
Imparando la lezione del padre: tutto, sulla terra,
è in prestito. Anche il potere. Così ora
apre ai no global.
Questa
è un'intervista sotto il segno del padre. Parlare
con Massimo Moratti, presidente dell'Inter, industriale
del petrolio e figura di spicco della Milano dei nostri
anni, significa infatti parlare quasi esclusivamente con
un figlio. Non c'è momento di questa conversazione,
non c'è episodio o ricordo o considerazione che non
porti l'impronta di quel personaggio dominante e, a suo
modo, straordinario che fu Angelo Moratti.
Massimo Moratti ha risolto il problema in un culto
delicato di quello che, a 57 anni, non smette di chiamare
"papà". Come quando era bambino e il
padre lo portò a vedere quella fatidica partita (Inter-Milan:
6 a 5) che segnò il destino calcistico di una
squadra e di una famiglia. È un culto dichiarato
senza spavalderie o timidezze. È il filo conduttore
di un'esistenza che si corona nell'estate del 1995, quando
Massimo riporta, non senza difficoltà, a casa
Moratti la squadra che Angelo aveva reso mitica.
Lei nasce
così alla vita pubblica a cinquant'anni. Come per
Gianni Agnelli, come per Luchino Visconti, sembra che
anche per lei i decenni precedenti siano stati una lunga
preparazione a un esordio clamoroso. Dov'era prima di
diventare presidente dell'Inter?
«Sono paragoni lusinghieri, ma in quei decenni io
semplicemente lavoravo. Facevo lo stesso lavoro di oggi:
l'imprenditore. Nel passato, la nostra famiglia era sempre
stata molto esposta. Forse per questo sia io che mio
fratello Gianmarco non abbiamo mai sentito l'esigenza di
apparire, ma solo il dovere di lavorare. Era peraltro un
dovere internazionale, perché dovevamo girare il mondo
per far funzionare i nostri impianti. C'è poi il
fatto che anche in politica non avevamo mai preso
posizioni pubbliche».
Insomma, ricchezza e discrezione. Per molto tempo è
stata questa la caratteristica della seconda generazione
Moratti.
«È così. Ambedue le cose ci vengono da papà
che ci ha permesso di godere della ricchezza, ma che ci ha
anche insegnato a sentire l'esistenza come un dovere verso
noi stessi e verso gli altri. Ci diceva: "Ricordatevi
che tutto nella vita è in prestito"».
Ma a un certo punto è arrivata la politica ed
è tornato il calcio.
«Nel 1994 mia cognata Letizia ha accettato la presidenza
della Rai e un anno dopo io ho comprato l'Inter. Tutto
è cambiato».
In peggio?
«Non direi. L'inter è un grande amore e una grande
sofferenza. Anche la decisione di acquistarla è
stata molto sofferta. Tanto è vero che in famiglia
mi sono trovato con nessuno, proprio nessuno, che fosse
d'accordo. L'ho acquistata lo stesso. Perché la ricchezza
serve anche a questo: a comprare una passione».
Come mai intorno all'Inter c'è sempre quest'aura di
eroica sofferenza, anche quando va tutto bene?
«È vero, è un po' la nostra caratteristica.
Il nuovo inno, che uscirà fra pochi giorni, scritto
da Elio (quello delle Storie tese) dice "Ma dimmi
cosa c'è di meglio / di una continua sofferenza /
per arrivare alla vittoria". Questo pathos ci ha
sempre accompagnato, fin dai tempi di papà che, con
tutte le cose importanti che aveva da fare, ogni domenica
ci prendeva e ci portava a vedere la partita. E a soffrire
per 90 minuti».
Il fantasma di un padre come il suo non è alla fine
un po' ingombrante?
«No, è solo un utile modello. Si diventa
ingombranti quando si obbliga qualcuno a seguire una
strada non sua. Papà era un uomo straordinario, una
centrale di energia che ha costruito dal nulla una
fortuna. Paragonarsi a lui è quasi un atto di
presunzione».
C'è comunque un periodo della vita in cui anche i
migliori genitori non sono un modello, ma un nemico, sia
pure simbolico. Lei, Moratti, che adolescenza ha avuto?
«Bella, serena. Papà è sempre stato
di-screto nei suoi interventi. Mai invadente e curioso.
Magari sapeva perfettamente quello che succedeva, ma non
ce ne dava segno. Forse alle femmine di casa è
andata un po' meno bene. Ma su di loro interveniva di più
la mamma. Noi maschi non abbiamo mai avuto direttive, se
non quella di sentirci liberi delle nostre scelte».
Possibile che da ragazzo non abbia mai preso un puntiglio,
mai avuto una ribellione?
«Non ce ne era bisogno. Papà era attento a non
creare la possibilità di scontri. Dopo la sua
morte, ho scoperto in un cassetto la lettera di un
professore del liceo che gli consigliava di mandarmi in
collegio. Ero troppo distratto dall'Inter, diceva. Papà
non mi ha mai mostrato quella lettera. È una cosa
che ho sempre trovato adorabile e che ancora oggi mi
scalda il cuore».
Come si diventa uomini accanto a una ricchezza che diventa
sempre più grande?
«Non mi sono mai sentito un privilegiato. Papà
aveva conosciuto la miseria e l'avventura di cominciare, a
14 anni, senza una lira in tasca. Aveva perso la mamma che
era molto piccolo ed era fuggito da un rapporto difficile
con la matrigna. Ma aveva basi etiche solidissime. Ci
raccontava che quando era bambino faceva lunghe traversate
sulla neve per andare a trovare suo nonno Angelo nella
campagna bergamasca. Il bisnonno - che aveva 21 figli e un
numero imprecisato di nipoti - si metteva a capotavola
mentre tutti i ragazzini dovevano aspettare accanto al
fuoco, seduti nelle panche dentro al camino. Prima
mangiava lui, da solo, poi mangiavano tutti gli altri. Non
è un imprinting da poco. Mio padre aveva conosciuto
sia la disciplina, sia la povertà, sia il
sacrifico, sia la gioia della libertà. Aveva
l'etica del lavoro, non il gusto vacuo della ricchezza».
Ci dica
qualcosa anche di sua madre.
«Faceva la moglie, soprattutto. Adorava il marito e
pensava che noi figli venissimo di gran lunga dopo di lui.
Noi lo accettavamo perché eravamo del tutto d'accordo con
lei. Era una donna che aveva conosciuto la povertà
più seria e dava un suo valore al denaro. Era
capace di mettere una sterlina in mano a Eugenio Montale
per ringraziarlo di una bella conversazione, ed era capace
di slanci che cambiavano la vita a tutti».
Per esempio?
«Quello che fece a Levico, dove negli anni Cinquanta
andava ogni estate a curarsi un vecchio esaurimento
nervoso con le acque delle terme. Li accanto c'era un
orfanotrofio. Un giorno ci disse: arriva un altro figlio.
Era Alessandro, di quattro anni, fratello bravissimo e
amato che si è integrato subito nella nostra grande
famiglia».
Veniamo alla famiglia di oggi. Lei è sposato con la
stessa donna da quasi trent'anni. Un miracolo, di questi
tempi.
«Una fortuna. Dovuta in gran parte a mia moglie Milly,
donna notevole, piena di passioni e interessi, che riesce
anche a prendersi il carico quotidiano della famiglia.
Certe sere fa le tre di notte sui libri del liceo assieme
a qualcuno dei nostri ragazzi che deve essere interrogato.
Si ricorda tutte le materie scolastiche, è
infaticabile».
Tutti dicono che è proprio sua moglie
l'intelligente della famiglia. Non ne è
infastidito?
«E perché mai? Sono contento per lei. E per me, che l'ho
sposata».
Inoltre sua moglie è una militante dei Verdi. Come
conciliate in famiglia il diavolo e l'acqua santa, cioè
il petrolio e l'ambiente?
«Viviamo seriamente questa contraddizione, ma cerchiamo
di trovare un punto di incontro, perché entrambi
consideriamo sacro il nostro mestiere. Negli ultimi dieci
anni tutti gli investimenti nella nostra raffineria sono
stati fatti per migliorare l'impatto con l'ambiente.
È buona volontà, ma è anche impresa:
altrimenti una raffineria muore».
Quanti figli ha?
«Cinque, come mio padre, due maschi e tre femmine, e
anche gli intervalli di età sono più o meno
gli stessi. So quello che si può pensare, che ho
riprodotto come padre ciò che ho goduto come
figlio. Non l'ho certo fatto apposta: ogni volta che mia
moglie era incinta, è stata per me una sorpresa. E
se l'ho fatto inconsciamente, che c'è di male?
In fondo a lei piace fare da padre anche a certi
calciatori, come a Rolando nel vostro travagliato addio.
Ci vuole raccontare com'è andata veramente?
«Non certo come dice il pettegolezzo che è stato
fatto circolare, con Ronaldo che se ne scappa a causa di
una moglie adultera e dei compagni che lo prendono in
giro. La verità è più semplice: dopo
aver vinto il campionato del mondo, Ronaldo si è
sentito come uno che aveva davanti a sé, appunto, il
mondo. Voleva andarsene e, non sapendo come fare, si
rivolgeva a me come un figlio che dice: "Ti voglio
lasciare, ma è per crescere, per esprimermi meglio.
Aiutami"».
E lei ha risposto paternamente?
«Ho cercato di aiutarlo, ma una società di calcio
non è una famiglia, da cui si scappa e tutto
finisce lì. Bisogna rifare i conti, trovare un
compratore, individuare un sostituto. Lui ha messo in
crisi un progetto nel quale aveva una parte importante.
Non biasimo i tifosi che si sentono schiaffeggiati e
rispondono a schiaffi».
Coltiverà anche rapporti orizzontali. Quali sono i
suoi amici più cari?
«Molti, che mi trascino carnalmente dai tempi della
scuola. Ma in questo momento ho grande intimità
anche con Tronchetti Provera. Ci piace parlare e abbiamo
una forte fiducia reciproca. Non solo stiamo insieme
all'Inter, ma io ho fatto anche degli investimenti nella
sua azienda. Poi c'è Gino Strada, che mi fu
presentato da mia moglie. Lo ammiro molto: avrebbe potuto
sfruttare le sue capacità per la carriera e per i
soldi, e invece se ne sta lì a tagliare e
riattaccare brandelli di corpi».
È d'accordo con Gino Strada anche politicamente?
«Non proprio, non abbastanza. Ma Strada in realtà
è meno estremista di quanto si creda. Lui reagisce
aggressivamente perché si sente attaccato, ma - a
ragionarci - ha il buon senso di capire il punto di vista
altrui. Però la realtà resta quella che vede
lui, non la nostra. E bisogna starlo a sentire».
Viene da pensare che Strada sia per lei ciò che
Muccioli fu per suo fratello.
«No, è diverso. Qui c'è solo una forte
amicizia. Lì c'era un rapporto più complesso
e un progetto condiviso».
Perché non ha accettato di candidarsi a sindaco di
Milano?
«Ci sono andato vicino per tre volte, l'ultima più
delle altre, ma poi alla fine non ho mai accettato. Ho
qualche idea sulla politica. Ma non ho idee di come si
faccia a governare. Penso che la politica, di destra o di
sinistra, sia una risposta individuale alle grandi paure
che ci attraversano».
Lei che paure ha?
«Una soprattutto: la ricerca della sicurezza. Ho paura
che, per difendere ciò che si ha e ciò che
si fa, si rinunci alla libertà delle idee. Per
questo vedo con simpatia i no global. Propongono un
sentimento diverso che è l'unica cosa nuova apparsa
all'orizzonte politico. Anche nei centri sociali c'è
un germe di nuovo. Sono posti in cui c'è confusione
delle idee, ma almeno si pensa. Se solo si riuscisse a dar
loro un po' di credito e a farli diventare, come avviene
in tante città europee, dei luoghi di ricchezza
culturale e non dei ghetti, Milano ne guadagnerebbe
parecchio.
Vede che qualche idea per governare Milano ce l'ha. Ma lei
ama la sua città?
«Non la trovo meravigliosa, ma le voglio bene. Milano ha
passato stagioni esaltanti e stagioni molto brutte. Come
quella di Tangentopoli, con quell'implosione terrificante
e con la gente paralizzata dalla paura. La città
aveva peccato, ma nessuno si aspettava una lezione così».
Ha perso amici durante Tangentopoli.
«Nessuno che mi fosse caro, ma ho visto alcune persone
che conoscevo avere problemi con la giustizia. Poi, anche
se per molti le cose si sono anche chiarite, le cicatrici
sono rimaste».
Nella sua famigliona c'è tutto: Letizia è
ministro di Berlusconi, sua moglie è amica di
Bertinotti, lei pende per l'Ulivo, i figli occupano le
scuole contro la guerra. Come ve la cavate quando state
tutti insieme?
«Litighiamo in allegria». |
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Un articolo di Enzo
Catania, su Hector Cuper
pubblicato su
Il
Nuovo
Zigomi sporgenti, occhi
ficcanti, capelli d’argento, è arrivato a Milano da
Valencia, ma nelle sue vene scorre sangue argentino come
quello di un altro mister interista che rispondeva al nome
di Helenio Herrera e che sotto un altro Moratti, il mitico
papà Angelo, aprì un ciclo leggendario, vincendo in Italia
e nel mondo tutto quello che c’era da vincere. Classe 1955
del 16 novembre, segno dello Scorpione, originario di Chabas,
modi garbati in un decisionismo spaccasassi, Hector Cuper
dal 1978 al 1989 giocò nel Ferrocarril Oeste, conquistando
due scudetti argentini. Otto volte nazionale, dal 1989 al
1992 militò nell’Hurricane, diventandone poi allenatore
dal 1993 al 1995 e ottenendone la promozione dalla B alla A.
Ha sempre amato l’Argentina, solo come può amarla
un argentino vero, ma non gli piaceva affatto l’Argentina
dei colonnelli: una cosa infatti è la disciplina,
l’ordine e il rigore sul lavoro, ben altra cosa è la
dittatura politica. E quei brutti ricordi di certi anni non
hanno smesso di inseguirlo pure in Europa.
Nel 1997 infatti ecco
l’inizio della grande e meravigliosa avventura in Spagna
sulla panchina del Majorca, subito affermatasi come squadra
rivelazione, anche se poi nel 1998 avrebbe fallito la Coppa
di Spagna e nel 1999 la Coppa della Coppe, persa per 2 a 1
nella finale a Birmingham contro la Lazio. Traslocando poi
nel Valencia, Cuper si rese protagonista addirittura
di due finali di Champions League, arrendendosi solo nel
2000 davanti allo strapotere del Real Madrid e nel 2001 alla
lotteria dei rigori che in extremis premiò il Bayern. Ma
chi oserebbe dare dello “sconfitto” a uno che, per
quattro volte consecutive ha fatto salire sino all’Olimpo
squadre su cui alla vigilia di ogni stagione non c’era
spagnolo che osasse scommettere una sola peseta?
Pur credente e pur
pregando spesso Dio, non l’ha mai disturbato per il
calcio: “Il Signore ha cose più importanti a cui pensare.
E noi uomini certi problemi dobbiamo saperli risolvere da
soli”. Se ipoteticamente dovesse però rinascere non
gli dispiacerebbe identificarsi in Madre Teresa di Calcutta.
“Una volta-ha confidato- sono riuscito ad avvicinarla e a
dirle qualche parola in inglese. Ho provato una sensazione
irresistibile. Lei così esile, minuta, piccina, eppure così
grande, mirabile, unica. Aveva intorno un’aureola che la
rendeva un essere speciale. Un angelo”. Tra i grandi
uomini del passato, uno dei suoi principali punti di
riferimento è sempre stato Martin Luther King, “un
vincente non tanto della causa per la quale si è battuto,
ma un vincente della vita”.
Massimo Moratti
seguiva Hector Cuper da tempo, ma aveva concentrato la
sua attenzione su di lui soprattutto negli ultimi mesi
in cui sulla panchina dell’Inter c’era ancora Marco
Tardelli. Ed è andato a prenderselo in Spagna.
“E’ stato- ha detto soddisfatto il presidente
dell’Inter - il mio più grande colpo della campagna
acquisti 2001”.
Al di là del calcio a
Hector Cuper sono state sempre riconosciute tre passioni: il
cinema (film preferito “Mezzogiorno di fuoco”,
capolavoro western di Fried Zinnermann), la letteratura
(grandi scorpacciate di scrittori sudamericani, non c’è
trasferta in cui pure sull’aereo non abbia un libro tra le
mani) e il sassofono, imparato a suonare oltre i
quarant’anni, turandosi le orecchie alle frecciatine della
moglie Cinzia e dei figli, una famiglia che non è apparsa
mai nelle fotografie ufficiali, semplicemente perché ha
continuato a vivere la propria vita con normalità, senza
mai montarsi la testa. Del resto la stessa infanzia di
Cuper è stata quella di un ragazzo qualsiasi, cresciuto da
nonna Rosa, una simpaticona di lontane origini italiane che
insegnava al nipote come comportarsi bene da cittadino del
mondo. Quell’infanzia ha dato a Cuper il culto
dell’unione familiare, la possibilità di apprezzare le
cose semplici e di crescere sgomitando per crearsi un lavoro
dignitoso, “perché questo ti riempie la vita, qualunque
esso sia”. Ecco il motivo per cui, pur giocando già a
calcio, agli inizi, non si è affatto tirato indietro nel
rimboccarsi le maniche e nell’assumere di volta in volta
le mansioni di giovane di bottega, aiuto tipografo,
cameriere. Uno venuto su con questi concetti in testa, con
cos’altro potrebbe essere stato in dimestichezza se
non con pallone e casa?
L’ex romanista Amedeo
Carboni, che alla bella età di 36 anni ritrovò nel
Valencia di Hector Cuper l’entusiasmo e la carica di un
ventenne, raccontava: “E’ serio, non severo, mai
impulsivo, mai una volta che si permetta di rimproverare un
giocatore in presenza d’altri. Sempre molto professionale,
non dà confidenza e non ne vuole. Pretende rispetto. E non
è affatto vero che sfianchi i giocatori sottoponendoli ad
allenamenti massacranti”. Sia a Majorca che a Valencia,
sul campo di allenamento arrivava per primo e se ne andava
per ultimo. Fischietto in bocca, taccuino e lapis in mano
per annotare, non urlava e non sbraitava: seguiva
l’evolversi delle partitelle e dava suggerimenti più con
ampi gesti e mimica efficace che con il tono della voce. I
suoi veri quattro assi nella manica si identificavano in
quattro parole: cuore, costanza, talento, disciplina.
Già in Spagna, prima di
ogni partita, ecco Hector Cuper all’uscita dagli
spogliatoi, battere una mano sul cuore di ogni giocatore. E
se gli capitava di fumare qualche sigaretta, mai in
panchina, ma alla fine della partita prima di presentarsi in
sala stampa o a fianco del pullman in attesa della partenza.
Piccole cose, certo ma che, agli occhi dei giocatori, ne
esaltavano compostezza e grande educazione.
A tavola, mentre altri
allenatori avevano un menù a parte, lui mangiava
esattamente ciò che mangiavano i giocatori: pasta o riso in
bianco o col pomodoro fresco, carne ai ferri, insalate di
verdure cotte e crude, al massimo la torta, quasi mai
mettendosi a capotavola ma nel mezzo per dominare la
sala. Sempre più duro con se stesso che con gli altri,
anche se per lui la parola “duro” aveva il
significato di “esigente”, mai pago, spesso critico, ma
più verso se stesso che nei confronti degli altri. Come a
dire: “Se non riesci a ottenere ciò che ti aspetti e che
vuoi, la colpa è innanzitutto tua o perché non hai
carisma, o perché non dai l’esempio, o perché non sai
spiegare, o perché non sei in grado di dimostrare a che
serve ciò che chiedi”.
Se poi gli si voleva
attribuire una specie di decalogo, i comandamenti che gli
interlocutori riportavano, avevano molte varianti, però
alla base rassodavano sempre la stessa filosofia: quando hai
delle responsabilità devi sapertele assumere, devi essere
sempre il primo a decidere e devi sempre saperlo fare; oltre
che parlare bisogna anche soprattutto sapere ascoltare;
quasi mai si possono avere in campo undici fuoriclasse, ma
per vincere occorrono undici giocatori motivati, determinati
e responsabilizzati, con i quali mantenere un rapporto
diretto e di reciproca fiducia; indispensabile creare il
gruppo attraverso la critica, il confronto e la discussione,
evitando però esasperazioni, processi pubblici e sommari e
proteggendone a qualsiasi costo la privacy, di fronte a
qualsiasi pressione esterna; l’equilibrio psico-fisico si
forma anche attraverso la riservatezza e l’umiltà, di cui
l’allenatore, salvaguardato da ingerenze esterne, unico
responsabile della squadra e unico a doverne rispondere, non
può che essere costante esempio, trattandosi di due armi
vincenti per ottenere risultati sia nel calcio che nella
vita.
Un tipo dunque tanto
schivo e riservato, addirittura ostico alle
frequentazioni mondane e alle parate perditempo, quanto
lucido e incisivo nella progettualità tattica e tecnica,
adorato dai giocatori anche per la sua abitudine di
mettere a nudo i problemi, affrontandoli uno a uno.
L’uomo dunque giusto al momento giusto sulla panchina
giusta per dare finalmente all’Inter quegli scampoli di
gloria che meritavano la sua storia, i suoi tifosi, il
blasone dei Moratti, con Massimo che in nerazzurro aveva
raccolto eredità e passione di papà Angelo?
Già alcune settimane dopo
che Hector Cuper, nato e cresciuto dalle parti di Santa
Fè,
fra il Rio Salado e il Paranà, è arrivato a Milano
raccontavano che aveva tutte le chances per diventare
all’Inter l’hombre del destino. E poiché oltretutto è
sbarcato nella metropoli lombarda con la sua Station
Wagon americana, riprendevano ad accostarlo ad Helenio
Herrera che, quarantun anni prima, aveva raggiunto i Moratti
nella loro villa di Imbersago. E nello stringere la mano di
papà Angelo, che di allenatori anche lui ne aveva già
cambiati nove, l’avrebbe subito fatto arrabbiare
dicendogli: “Querido presidente, me digono che le lei
è troppo buono con i giocatori”, ma l’avrebbe subito
anche addolcito poiché per il palato e l’intuito
dell’uomo d’affari diventava miele quella sicurezza di
“Accaccone” (Brera dixit) che sparava piatto: “Soy
soltanto colpevole di essere il più bravo”.
Per gli amanti dei ricorsi
storici, l’unica differenza tra Helenio Herrera ed Hector
Cuper dopo quarantun anni stava semmai nell’ingaggio
annuo: 30 mila dollari per don Helenio, cioè 45 milioni di
lire che, in un’epoca in cui i tecnici più blasonati
oscillavano tra i 15 e i 20, erano comunque una somma da
Paperon de’ Paperoni; 5 miliardi tondi a stagione per don
Hector Raul. Che importava poi se l’argentino di papà
Angelo aveva un carattere estroso e alla dinamite e
quest’argentino del figlio Massimo è subito apparso
portandosi cucita addosso la riservatezza personificata? Ad
unirli, ecco la filosofia di fondo. “Ganeremos todo y
contra todos” (“vinceremo tutto e contro tutti”),
aveva detto Helenio Herrera al suo arrivo nel ritiro di San
Pallegrino. “Lo penso e lo ripeto anch’io”, ha detto
Cuper a quanti gli hanno ricordato l’episodio durante il
primo ritiro in Valle d’Aosta. Il paragone con il prode
connazionale, colonna di un intero ciclo interista, non solo
dunque non gli è dispiaciuto, ma lo ha trovato positivo e
stimolante. D’altronde per tutti gli argentini il calcio,
ha detto una volta Cuper, “è una specie di
sangue che ci scorre dentro nelle vene come il tango. Solo
che il tango è triste, è struggente invece il calcio dà
gioia. E per questo che il pallone in Argentina non morirà
mai”. Ed è anche per questo che non potrà mai
dimenticare il giorno in cui l’Argentina vinse il Mondiale
e le strade si affollarono pure di gente che mai una volta
era stata allo stadio: “L’Argentina ha un cuore che
pulsa al ritmo del calcio”. Quando poi il calcio
diventa studio, applicazione a passione, si trasforma in
qualcosa che ti gratifica l’esistenza. E allora scopri
la necessità di fare sempre più le cose al meglio.
E allora cerchi anche di lasciarti alle spalle ogni
ostacolo, mettendocela tutta. Potevano questo modo di
pensare e questa determinazione del Mister non dare carica all’entusiasmo di Massimo Moratti? Il presidente un
giorno ha spiegato che la scelta di Hector Raul Cuper è
stato frutto di una sua precisa convinzione: “Alcuni
anni fa ero in Argentina e mi parlarono di lui. Da allora ho
cominciato a seguirlo e a persuadermi sono stati i risultati
che ha ottenuto in Spagna, recuperando anche giocatori che
erano stati dati per finiti. Ve lo garantisco: è un
allenatore con grande carisma e tanta sostanza”.
Per un argentino già
vissuto in Spagna l’ambientamento e le frequentazioni in
Italia non sono stati difficili. Sin dall’inizio Hector
Cuper non si è neppure preoccupato di eventuali
difficoltà con la lingua, utilizzando termini spagnoli,
italianizzandoli ed esprimendo alla fine concetti molto
chiari, quasi inventando un esperanto italospagnolo tutto
suo, pur non rinunciando al ruolo di puntiglioso scolaro
agli… ordini di Juan Manuel Alfano. Ha trovato il clima di
Milano un po’ rigido d’inverno, “ma la città non è
fredda, la gente che ho incontrato è stata calorosa. Ho
tratto la sensazione che noi argentini ci sentiamo più
vicini agli italiani che agli spagnoli”. Circa la
vita in casa assolutamente nulla è cambiato rispetto ai
tempi in cui stava in Argentina e in Spagna. “Mia moglie
Cinzia- ha confidato nel gennaio del 2002, - è il mio capo.
Organizza alla perfezione la mia vita di marito e quella dei
miei figli. Dovrei definirla casalinga, secondo antichi
schemi, invece lavora come una matta e senza il suo apporto
l’unione familiare, che è il valore più alto di un
nucleo, andrebbe alle ortiche. E poi se dicessi che non
lavora, non potrei più ritirarmi in casa…. Ci siamo
conosciuti in quanto dirimpettai. L’ammiravo dal balcone,
i nostri palazzi s’affacciavano sullo stesso vicolo. Anche
lei mi sbirciava. La nostra storia somiglia a quella di
Giulietta e Romeo. All’epoca giocavo in serie B. Non mi ha
più mollato”. Erano i tempi dei colonnelli.
“E’ stata un’esperienza - ha ribadito- che mi ha
insegnato come il bene supremo di un uomo sia la libertà.
Ci sentivamo spiati in tutto, una situazione tremenda.
Chiaramente regnava l’ordine, ma solo perché dominava la
paura. Nessuno rubava per paura: se ti arrestavano, mica
potevi farti chiamare un avvocato…”. Circa però
l’impatto con l’Europa nel ruolo di allenatore, poco
piacevole il primo ricordo: “Nel momento della
presentazione alla stampa, qualcuno mi chiese: pensa di
mangiare il torrone? E io risposi: ma certo, sono molto
goloso. Ah, replicò il giornalista, allora non teme di
essere licenziato prima? Incredibile, ero stato appena
ingaggiato”.
Seguirono
l’ambientamento, i primi successi, i primi amici, il
piacere della Spagna, l’offerta di Moratti, il sì
all’Inter, l’arrivo in auto “ poiché mi piace guidare
molto, al volante pensi, metidi, arrivi persino a
rilassarti”, la conferma dei suoi hobbies, con
l’aggiunta di altri particolari. Per esempio: “Amo
leggere Platone, anche se non sempre capisco le sue teorie.
Entro sempre volentieri in una libreria, mi sembra di aprire
un cofanetto prezioso e misterioso. Acquisto quattro cinque
libri per volta, magari riesco a leggerne solo uno ma il
libro è magico. Emana fascino. Di solito preferisco
filosofia e psicologia, materie molto utili alla mia
professione”. E ancora: “Mi piace ballare il tango ed
altri ritmi. Non so se ballo bene, so che ballo
volentieri”. Sempre viscerale la passione per il
sassofono, con un rimpianto: “A Milano mi esercito
poco”.
L’idillio con i
tifosi è nato quasi subito. D’altronde, dopo tante
delusioni e un vorticoso balletto di allenatori susseguitisi
per anni, il terreno era più che fertile per raccogliere
consensi e riprendere ad alimentare attese e speranze. Ma in
pochi, sia durante la sua permanenza in Spagna che dal
giorno del suo arrivo in Italia hanno sottolineato
un’altra delle doti particolari di Hector Cuper: la
testardaggine nel sottoporre a test le proprie teorie senza
confrontarle con nessuno. Il che, attenzione, non vuol dire
che non ha l’abitudine a dialogare con i suoi
collaboratori, visto che l’ha fatto ovunque. Vuol dire
solo che non ha mai smesso di sottoporre a una specie di
test personale le sue convinzioni in base ai giocatori a
disposizione e quelli più in forma e in salute, dando
prima uno sguardo all’infermeria, alla tabella delle
squalifiche, al tipo di avversario da affrontare, a
strategia e tattica da adottare. Per il resto, il motto di
sempre: “Le responsabilità sono mie e soltanto mie”.
Eccolo perciò comunicare la formazione a Massimo Moratti
sola durante la mattinata di domenica senza che per questo
il presidente ne abbia fatto mai un problema, poiché ha
capito che l’autonomia e i metodi cari a Cuper si sono
sempre riflessi positivamente sulla tranquillità della
squadra. Eccolo decidere i tempi di recupero di Ronaldo a
prescindere dagli umori esterni. Eccolo andare avanti
tranquillamente con Kallon e Ventola sino a quando
personaggi carismatici e insostituibili come Christian Vieri
sono stati fermi per infortunio. Ed eccolo suonare la carica
non appena lo stesso Vieri si è reso disponibile,
riprendendosi il suo ruolo di “Bobo-gol”, forse il
migliore di tutti i tempi. Ed eccolo sempre imperturbabile
davanti al quesito riguardante Alvaro Recoba, se farne ciò
un tassello fisso all’interno della squadra oppure una
pedina mobile in base alle partite e alle solite
disponibilità della rosa. Un Cuper così abituato a
muoversi al di sopra delle righe, ha reso persino vano
l’eterno dilemma se la sua indole sia quella di un
difensivista oppure no. Un esempio per tutti: nella partita
del gennaio 2002 a San Siro contro il Parma, che avrebbe
portato l’Inter al vertice della classifica, Cuper
ha contemporaneamente schierato Conceicao, Recoba, Kallon e
Vieri, esprimendo bel gioco e mandando alle ortiche i
pronostici di quanti vedevano una squadra più votata alla
difesa a oltranza con azioni in contropiede che orientata
decisamente all’attacco. Ecco allora Cuper farsi anche
fama di allenatore imprevedibile, capace di tirarti la
formazione che magari non sono abituati ad aspettarsi
gli altri, ma che si sposa in quel momento con la
situazione.
L’ imprevedibilità, e
di conseguenza la capacità da parte di Cuper di
rendere vulnerabili le attese altrui per gratificare
innanzitutto le proprie, è dimostrata da un altro episodio
significativo, che fece da vero spartiacque alla sua
carriera. Appese infatti al chiodo le scarpette da
calciatore, per poter restare nel mondo del calcio si
iscrisse contemporaneamente a due corsi: quello di
allenatore e quello di giornalista. Ebbene, approdò per
primo a quello di allenatore e ci restò. “Ma come se la
sarebbe cavata con la penna?”, gli chiesero in una
conferenza stampa. “Magari bene -rispose- perché dedico
sempre tutto me stesso alle cose che intraprendo. Ma dietro
alla telecamere ho provato a starci e fu una cosa tremenda,
un’autentica vergogna. Uno dal di fuori magari pensa sia
facile fare televisione e invece quando devi parlare in
diretta…Rividi la mia registrazione: un disastro
totale”. Mica però perché fosse un freddo!
“E poiché il carattere-spiegò- viene fuori
qualsiasi cosa si scelga di fare nella vita, mi sono accorto
che contrariamente a quanto alcuni potrebbero pensare, io
non sono affatto un freddo. Vivo infatti le pulsazioni di
tutti, riuscendo però a nasconderle, perché per il mio
ruolo, ripeto, devo sempre mostrarmi equilibrato”. E
infatti, sia nella giornate in cui ha perso, ha vinto o ha
pareggiato; sia a Majorca, a Valencia, a Milano o in
qualsiasi altra città in cui le squadre da lui allenate si
sono trovate in trasferta, avete mai visto Hector Cuper
istrione o vanesio, depresso o euforico, millantatore o
terribilmente sottotono? E’ un Mister da Terzo
Millennio, ma il suo Dna è come se si fosse perfezionato
nei decenni del calcio. Un Mister insomma assai navigato,
venuto da lontano…
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Recensione del
libro di Nando dalla
Chiesa,
intitolato "Capitano, mio Capitano"
La leggenda
di Armando Picchi, livornese nerazzurro,
scritta da
Michele
Mancino e pubblicata su
varesenews@ilcircolino.it
Redazione Via S. Imerio 10 - Varese 0332/242580 fax
0332/236302
Il
giocatore lo riconosci dal coraggio, dall'altruismo e
dalla fantasia, canta Francesco
De Gregori ne "La leva calcistica del '68".
Armando Picchi da Livorno, era tutto questo e anche di più.
Era un libero - gente pregiata nel calcio- di quelli
che il pallone ce lo hanno prima nel cuore e poi tra i
piedi. Il suo nome è rimasto legato alla Grande Inter,
quella di Moratti ed Herrera, di cui era capitano e leader
morale.
Il suo viso scavato da marinaio livornese divenne la
bandiera di una compagine che ha fatto la storia del
calcio italiano. Lui ne era il Capitano. Un carisma che si
era conquistato in campo e nello spogliatoio, per i suoi
takle e per i suoi discorsi, per le sue chiusure perfette
in difesa e per la generosità dei suoi rilanci verso i
compagni. Si scontrò con un altro grande, Herrera, il
Mago. Grandi entrambi sì, ma profondamente diversi nel
modo di sentire la vita. Una diversità che a Picchi costò
il posto in squadra e il trasferimento in provincia, al
Varese, quello di patron Borghi.
Il destino non fu tenero
con il Capitano. Un grave incidente, durante un incontro
con la Nazionale, ne stroncò la carriera. Correva il 6
aprile del 1968, a Sofia si giocava Bulgaria- Italia, era
l'andata dei quarti di finale degli Europei. Al 24mo
minuto del primo tempo Picchi intervenne a chiudere una
discesa del mediano Yakimov. Uno scontro terribile. Lo
portarono negli spogliatoi, aveva rimediato una
commozione cerebrale. Lui chiese di rientrare e rientrò.
Si mise all'ala, sulla fascia. Rimase fermo,
"immobile come una statua", senza poter
intervenire, forse senza capire nemmeno il perché. Era
ritornato in campo con una commozione cerebrale e con
l'osso pubico fratturato.Dopo aver vinto tre scudetti, due
coppe europee e due coppe intercontinentali, poteva
diventare un grande allenatore. Un passaggio naturale per
uno come lui che, prima nell'inter e dopo nel Varese,
allenatore lo era già stato. Un faro in campo, che
indicava ai compagni la rotta da seguire.
Iniziò sulla panchina del suo Livorno, serie B, nella
stagione 1969-70, a campionato iniziato. Gli
amaranto navigavano in cattive acque, ultimi dopo il
girone d'andata. Lo chiamò il fratello Leo e il Capitano
rispose. Il Livorno si salvò, chiudendo al nono posto.
Poi arrivò la proposta di Italo Allodi, figura storica
del calcio nostrano, volpe del mercato, architetto
della Grande Inter. Era la stagione 1970-71, e a 35 anni
Picchi, il più giovane allenatore della serie A, sedeva
sulla panchina della Signora più blasonata e temuta
d'Italia, quella bianconera.
In quella Juventus muovevano i primi passi giovani di
belle speranze che sarebbero diventati campioni: Franco Causio, leccese sanguigno dal talento cristallino;
Roberto Bettega, il Charles minore, che in area
avversaria svettava sempre su tutti; Fabio Capello che
disegnava belle geometrie a centrocampo; Pietruzzo
Anastasi il saraceno, bomber di razza eccelsa.
Armando Picchi su quella panchina durò pochi mesi e non
per suo demerito. Quei dolori alla schiena che si facevano
ogni giorno più intensi, non erano semplici reumatismi,
come lui pensava. Un male incurabile lo stava minando dal
di dentro, fino a fargli perdere l'uso delle gambe. Morì
il 26 maggio, mentre i suoi ragazzi erano a giocarsi la
finale della coppa delle Fiere, quella che noi oggi
chiamiamo Coppa Uefa, contro il Leeds.
Armando Picchi detto Penna Bianca, nomignolo affibbiatogli
da un altro grande, Gianni Brera, è stato un campione di
quelli che non se ne vedono più, e non perché il passato
è sempre meglio del presente, ma perché una volta il
mondo del calcio era altra cosa e anche i figli che
generava erano altra cosa. Quel mondo ha provato a
raccontarcelo Nando dalla Chiesa. È la seconda volta che
ci tenta, lo aveva già fatto - splendidamente - con Gigi
Meroni, "La
farfalla granata", altro mito e meraviglia del futball
desaparecido .
Il risultato è un libro
bello e commovente, pennellate di bianco e nero che ci
rimandano una figura eroica in campo e anche fuori, amata
dai compagni, porto e sicuro approdo non solo di passaggi
e palloni, ma di speranze e aspirazioni di intere
generazioni di tifosi.
È passione pura quella che guida il racconto di Nando
dalla Chiesa. Passione di tifoso e di uomo impegnato nella
società civile, di chi sa riconoscere il valore aggiunto
che figure come quella di Armando Picchi apportano alla
storia. |
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Brano tratto da un articolo di Enzo Catania, su Giovanni
Trapattoni -
- che è stato allenatore dell'Inter
- pubblicato su Il
Nuovo
.......
Nel 1986 eccolo all'Inter ridisegnare in meno di tre anni
la squadra, scatenare nel campionato 1988-89 la più
straordinaria delle cavalcate con 26 vittorie, sei
pareggi, due sole sconfitte, sempre in testa alla
classifica dall'inizio alla fine, sino alla conquista
dello scudetto e staccando il Napoli, secondo, di ben 11
punti. Chiaro perché anche il popolo nerazzurro amò il
Trap? Non solo: quando sembrò evidente che non ci fosse
amore tra Massimo Moratti e Gigi Simoni, proprio nell'anno
in cui avrebbe esordito la coppia Ronaldo-Baggio e ancora
non c'era nulla che facesse prevedere l'arrivo di Marcello
Lippi, in tanti sognarono che sulla panchina nerazzurra
potesse tornare subito il Trap, che aveva ormai chiuso la
sua trasferta in terra tedesca.
Il
Trap aveva tenuto a battesimo quella squadra nerazzurra
che, cogliendo lo scudetto, era entrata nella storia.
Quante piccole liti con Matthaus, quante scenette gustose
con il tedesco che rivolto alla panchina chiedeva:
“All'attacco, mister, all'attacco?” e lui che
fischiava e urlava: “Stai lì, Lothar, che è meglio”.
E aveva sfornato una squadra formidabile con Zenga in
porta, Bergomi e Ferri marcatori, Mandorlini oppure
Verdelli nel ruolo di libero, Brehme regista sulla fascia
sinistra con cross millimetrici, Bianchi uomo d'ordine
sulla destra, al centro due terremoti della forza di Berti
e di Matthaus, con Matteoli che dava equilibrio e
geometria, Diaz che sfruttava ogni spazio, Serena boa
centrale, colpitore di testa come pochi, all'occorrenza
torre per l'irrompente compagno di turno. Consideravamo il
Trap una specie di “Socrate della Brianza”, forte
nell'arte della maieutica, sergente di ferro che però
sapeva leggere nel cervello di ogni giocatore, ne guidava
lo spirito, ne solleticava l'umore, ne alimentava la
rabbia per trasformarla in produttività. Sempre tutti
miracoli del suo Dna! “Sa cavalcare il momento
psicologico dei singoli e della squadra”, diceva già
allora Aldo Serena.
Proprio
per questo, dopo che l'Inter nel 1991 aveva vinto anche la
Coppa Uefa battendo in finale la Roma, lo rivolle a Torino
l'Avvocato che aveva dato il benservito a Gigi Maifredi.
....... |
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Brano tratto da
un articolo di Enzo Catania, su Marcello
Lippi
- che è stato allenatore dell'Inter -
pubblicato su Il
Nuovo
..... E pensava all'Inter,
la sua nuova squadra: riuscendo infatti a resistere ai
corteggiamenti di Sergio Cragnotti, aveva risposto con
entusiasmo sì a quelli di Massimo Moratti. "Le
dimissioni di Lippi dalla Juventus - diceva il presidente
dell'Inter - sono state un gesto di grande dignità. Non
voglio entrare nelle vicende bianconere, ma la situazione
stava ormai andando in una certa direzione. Lippi non ha
abbandonato una nave alla deriva. Il suo è stato un gesto
di grande responsabilità".
Fu così che agli occhi dei tifosi interisti Marcello Lippi
non diventò solo l'allenatore che con la Juventus aveva
scritto un ciclo. Era il nuovo Messia che avrebbe sanato
ferite, fatto fiorire sorrisi, rilanciato sorpassi e voglie
d'Europa, rimesso in moto corse verso la vetta della
classifica, riportato scudetti e trofei, allevato e
reclutato altre legioni di tifosi nerazzurri. Basta insomma
notti insonni. Basta sorrisetti ironici sulle labbra dei
menagramo che avevano fatto dell'Inter la squadra più
sbertucciata d'Italia, in caduta libera, preda di uno
spogliatoio ritenuto in più d'una occasione isterico e
devastato. Basta dubbi e crucci. Basta macerarsi il fegato.
Nuovo Messia, nuova Inter, nuova èra sulle ali della nuova
coppia d'attacco formata dal brasiliano Ronaldo Ruiz Nazario
de Lima e dall'italoaustraliano Christian Vieri, primo
grande colpo di mercato alla vigilia del
debutto di Marcello Lippi sulla
panchina nerazzurra.
Quando in una Milano calda
e appiccicosa Marcello Lippi apparve per la prima volta
accanto a Giacinto Facchetti e a Peppino Prisco, sui visi
della "quercia di Treviglio" e dell'intramontabile
avvocato si leggeva serenità e fiducia. Alle loro orecchie
risuonò musica innanzitutto una frase: "Le mie scelte
sono solo tecniche. Non consentirò a nessuno di rovinarmi
il mio lavoro. Se qualcuno rompe le scatole, lo prendo e lo
caccio via...Voglio una squadra che superi la barriera di
sentirsi legata a un campione". E il discorso valeva
per tutti: "Giocheremo con una buona difesa e l'attacco
dovrà pensare solo a fare gol". In quanto a
Ronaldo-Vieri, "la coppia ha forza, tecnica e fantasia.
Per farla però rendere al massimo, dobbiamo essere squadra.
E le premesse ci sono".
L'Inter di Marcello Lippi partì "sparata". Dopo
solo cinque giornate i nerazzurri si trovarono in testa alla
classifica. Purtroppo quel momento magico durò poco: prima
l'assenza di Ronaldo per infortunio, poi quella di Vieri,
tolsero al viareggino due sicuri numeri vincenti,
assottigliando in maniera determinante la potenzialità
della squadra in fase di realizzazione. E quel 12 aprile
all'Olimpico contro la Lazio, che avrebbe dovuto essere per
l'Inter una serata di grande festa per il rientro di Ronaldo,
diventò un urlo di dolore, tante lacrime, per quel
ginocchio che aveva ceduto ancora. Il dramma del Fenomeno
commuoveva l'Italia intera al di là del tifo. Ma anche il
campionato 1999-2000 dell'Inter, quello che secondo la
stragrande maggioranza dei pronostici avrebbe dovuto
consacrare lo scudetto dopo dieci di astinenza, finiva in
modo tale che, per accedere alla Champions League, i
nerazzurri milanesi di Marcello Lippi dovettero disputare lo
spareggio con i parmensi di Alberto Malesani. Vieri tornò a
infortunarsi, ma un Baggio spettacolare diede all'Inter il
passaporto verso la Coppa dei Campioni.
Finita la stagione, si disse e si scrisse che il viareggino
avesse offerto le sue dimissioni a Moratti poichè il
traguardo dello scudetto non era stato raggiunto e poichè
era il caso che chiunque, a partire da lui, si rimettesse
comunque in discussione. Si disse e si scrisse che Moratti
non solo le rifiutò ma confermò Lippi ridandoglia carta
bianca. Con il senno del poi, visto come poi si sarebbero
messe le cose, forse sarebbe stato un bene per tutti se il
rapporto fosse stato risolto allora. Diceva Napoleone che al
suo fianco non voleva solo generali bravi, ma anche
fortunati. Che Lippi fosse bravissimo non c'erano dubbi, al
punto che non appena circolerà la voce che Sven Goran
Ericksson,allenatore della Lazio, avrebbe lasciato a giugno
del 2001 Roma per andare a occupare la panchina della
Nazionale d'Inghilterra, uno dei primi nomi che si faranno
tra i mister preferiti da Sergio Cragnotti sarà proprio il
suo. Ma che sotto la casacca nerazzurra fosse stato
altrettanto sfortunato, visto che non aveva mai potuto
disporre di Ronaldo e Vieri insieme e che periodicamente si
era dovuto arrendere davanti ad altri infortuni, nessuno
poteva certo dirlo. E che fosse pure sfortuna il fatto che
Alvaro Recoba, dopo una partita all'arma bianca dell'Inter a
San Siro contro la pur modesta formazione dell'Helsinborg,
sbagliasse addirittura anche il rigore decisivo che avrebbe
potuto tenere in corsa i nerazzurri per l'Europa, era un
dato incontrovertibile. Poi quella partita fuori casa contro
la Reggina, giocata non male ma conclusasi malissimo come
risultato, mandava così in bestia Lippi che davanti ai
microfoni non aveva esitazione a dire che i calciatori
andavano presi a calcioni in quel posto e che se lui fosse
stato il presidente, avrebbe licenziato l'allenatore. E il
giorno dopo eccolo infatti a colloquio con Moratti. Forse
lui pensava che, rimettendosi in discussione, sarebbe stato
aiutato a fare ordine in certi tasselli di un mosaico in cui
tante pedine pensavano di continuare a fare di testa loro.
Invece si vide esonerato: secondo la società evidentemente
mancavano le basi per proseguire il rapporto, quelle frasi a
Reggio Calabria erano diventate spartiacque, meglio chiudere
la pagina e farsi ciao ciao senza rancore. ......
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LEGGENDE DI "PALLONE"
L'appassionante avventura di
uno sport che da molti secoli si accompagna alle vicende
dell'umanità
LA STORIA NEL PALLONE
INTER-HERRERA: I DUE
NOMI MITICI DEGLI ANNI '60 di IGOR PRINCIPE
Gli anni Cinquanta, come
abbiamo visto nella precedente puntata, cambiano il volto
del sistema calcio. L'avvento della televisione e la nascita
di squadre-mito (l'Ungheria di Puskas, il Real Madrid dello
stesso magiaro e di Alfredo Di Stefano) sono i due elementi
che più di tutti contribuiscono a fare dello sport più
popolare al mondo un vero e proprio spettacolo. La
trasfigurazione si completa a metà degli anni Sessanta
grazie ad una squadra italiana: l'Inter. Dal 1954 ne è
presidente un petroliere milanese, Angelo Moratti.
Dopo sei anni opachi quanto a risultati, il massimo
dirigente chiama ad allenare i nerazzurri Helenio Herrera,
argentino di origini spagnole che alla guida del Barcellona
ha riscosso buoni risultati. L'ingaggio - 100mila dollari
annui più i premi partita, inclusi quelli delle squadre
giovanili dell'Inter - rende la misura del valore dell'uomo,
che si autoproclama "mago" e stupisce i calciofili per la
scarsa importanza che ripone negli schemi di gioco.
Il giornalista Gian Paolo Ormezzano, in un suo libro, ha
scritto che Herrera "preferì intitolare tutto a se stesso,
ai propri metodi spinti di allenamento, alla carica che in
qualche maniera, dialettica o chimica, riusciva a impartire
alla squadra. Ma la vera rivoluzione (…) consistette
soprattutto nella costruzione totale della figura del
tecnico, il quale divenne autenticamente mago, in possesso
di poteri altissimi sul corpo e anche sull'anima dei suoi
adepti, cioè dei suoi giocatori". Poteri che esercita con
una concezione maniacale del calcio, che arriva a
totalizzare la vita di chi lavora ai suoi ordini. Ai
difensori, per esempio, pochi giorni prima di ogni partita
consegna una fotografia dell'attaccante che devono marcare,
intimando loro di portarsela anche in bagno. La sua, ad ogni
modo, è un mania dai risvolti positivi, che non coinvolge
l'impegno mentale dei giocatori anche nell'aspetto tattico.
In altre parole, Herrera non è un fanatico degli schemi.
Anzi: degli undici che vanno in campo, ben quattro giocano
soprattutto sulla fantasia: lo spagnolo Suarez, Mazzola,
Corso, e il brasiliano Jair. Tra questi, il primo è
ricordato per la capacità di lanciare il pallone per oltre
quaranta metri con millimetrica precisione; e Corso per aver
inventato il tiro "a foglia morta", che prima faceva
impennare il pallone e poi, d'improvviso, lo lasciava cadere
in rete, alle spalle del portiere. Con loro (e con altri
campioni quali Facchetti, Burgnich, Picchi, il portiere
Sarti) l'Inter di Herrera passerà alla storia. Non tanto per
le vittorie nel campionato italiano (nel 1963, '65 e '66),
quanto per quelle in campo internazionale.
Nel 1964, allo stadio del Prater di Vienna, i nerazzurri
conquistano la Coppa dei Campioni battendo in finale il
fortissimo Real Madrid, bissando il successo italiano
ottenuto l'anno prima dal Milan. Nel 1965 raddoppiano, nella
finale di Milano vinta 1 a 0 contro il Benefica. Non
contenti del primato in Europa, i ragazzi di Herrera si
impongono anche a livello mondiale, vincendo due coppe
Intercontinentali consecutive ('65 e '66) battendo in
entrambe le occasioni gli argentini dell'Independiente. In
questo modo, l'Inter non solo scrive pagine memorabili nella
storia calcistica mondiale, bensì imprime il suo marchio nel
costume del Paese, contribuendo ad alzare il volume di quel
"boom" che ne scuote l'economia e il modo di vivere.
Gli anni Sessanta, insomma, non passeranno alla storia
soltanto per un diffuso, ritrovato benessere economico o per
le canzoni di Gino Paoli, Celentano e Mina, ma anche per i
trionfi della "Grande Inter". L'Italia non è il solo Paese
interessato da questo fenomeno di emulsione tra calcio e
costumi sociali: qualcosa di analogo, infatti, si verifica
in Inghilterra nell'estate del 1966, passata alla storia
come "l'estate di Bobby Charlton". Nella patria del
football, quell'anno, si giocano i mondiali, e Charlton è
uno degli attaccanti della nazionale inglese.
Con una storia da romanzo alle spalle: fa parte, infatti, di
quel Manchester United che, a metà degli anni Cinquanta,
rappresenta l'unica vera squadra capace di insidiare il
dominio europeo del Real Madrid. In panchina siede un tale
Matt Busby, allenatore con il gusto del rischio che decide
di sostituire il suo primo attaccante Tommy Taylor (un idolo
dell'epoca), infortunato, con il diciannovenne e inesperto
Charlton. Che, da brutto anatroccolo, si scopre cigno: i
suoi gol portano i "reds" (come vengono chiamati i giocatori
del Manchester) alla vittoria nel campionato inglese.
La stagione successiva giocano la Coppa dei Campioni, e tra
i loro avversari figura la Stella Rossa di Belgrado. Di
ritorno dalla trasferta nella capitale jugoslava, l'aereo
sul quale viaggia la squadra si schianta al suolo sulla
pista dell'aeroporto di Monaco di Baviera, causando la morte
di quasi tutti i giocatori. Si salvano in pochi, tra i quali
Charlton e Busby, che trovano la forza per ricostruire la
squadra, portandola a vincere tre titoli nazionali, una
coppa d'Inghilterra ma soprattutto, prima tra tutte le
squadre inglesi, l'edizione della Coppa dei Campioni del
1968.
La popolarità di Charlton, tuttavia, ha già raggiunto il suo
acme due anni prima, in occasione dei suddetti mondiali, che
si disputano nel pieno di quella primavera sociale che
l'Inghilterra ricorda con il nome di "swinging London".
Nella patria di Albione impazzano le minigonne di Mary Quant
e le stravaganze di Carnaby Street, la musica dei Beatles e
quella dei Rolling Stones. Sembra, insomma, che ogni ventata
di novità che soffi in Europa e in America provenga da oltre
Manica.
In un clima che fa sembrare Londra il centro del mondo, è
inevitabile che a vincere i mondiali al cospetto della
regina Elisabetta II sia proprio la nazionale di casa. Con
una partita che, però, sarà ricordata come quella del "gol
fantasma" regalato agli inglesi dall'arbitro svizzero Dienst.
Di questa storica svista ne fa le spese la Germania Ovest,
che per i primi novanta minuti riesce a tener testa
all'Inghilterra e la costringe a chiudere i tempi
regolamentari sul 2 a 2. Nel primo dei tempi supplementari
si verifica il misfatto: l'inglese Hurst scaglia un potente
tiro che manda la palla a sbattere contro la traversa,
quindi a rimbalzare in campo.
Gli inglesi, credendo che la sfera abbia superato la linea
di porta, si lasciano andare all'esultanza; i tedeschi,
convinti del contrario, accerchiano l'arbitro che si dirige
verso il guardalinee. Ancora oggi, le immagini di repertorio
non sono in grado di offrire l'esatta posizione del pallone
al momento in cui tocca il terreno; sta di fatto che il
guardalinee lo vede al di là della porta, e l'arbitro
convalida il gol. Per i tedeschi è il colpo definitivo:
scoraggiati, lasceranno che l'Inghilterra segni un'altra
rete e conquisti un titolo mondiale che - complice anche il
fatto di essere stato l'unico vinto finora - entra di
prepotenza nella storia del costume nazionale. Quattro anni
dopo, per la Germania Ovest, i tempi supplementari si
rivelano ancora fatali, in una partita contro l'Italia che
l'unanimità degli appassionati di calcio ritiene "la partita
del secolo".
Si gioca il 17 giugno del '70 allo stadio Azteca di Città
del Messico, ed è la semifinale di un nuovo campionato del
mondo. L'Italia è allenata da Ferruccio Valcareggi e schiera
un "undici" storico, nel quale spiccano i nomi di Gigi Riva,
Roberto Boninsegna, Gianni Rivera. Dall'altra parte, i
"panzer" tedeschi arrivano a quell'appuntamento forti di
quattro vittorie su quattro partite e di 13 gol messi a
segno, 8 dei quali dal solo Gerd Mueller, sgraziato ma
efficacissimo attaccante. Sembra una partita destinata a
finire come tante altre: passa in vantaggio l'Italia con un
gol di Domenghini, e quel vantaggio tiene fino a oltre il
novantesimo minuto, arginando i ripetuti attacchi dei
tedeschi. Fino a quando il difensore Schnellinger - che da
dieci anni milita in una squadra italiana, il Milan - trova
il pareggio con un gol in scivolata nei due minuti di
recupero concessi dall'arbitro.
"Proprio lui!", è lo spontaneo commento di Nando Martellini,
che racconta la partita ai telespettatori italiani. Si va ai
supplementari, e il match entra nel mito. Le due squadre
danno vita a un botta e risposta di gol che esalta chi
gremisce gli spalti e tiene con il fiato sospeso, nelle
rispettive nazioni, almeno cinquanta milioni di persone
incollate alla televisione malgrado, per il fuso orario, in
Europa sia notte inoltrata. Va subito in vantaggio la
Germania grazie a una papera difensiva di Poletti. Pareggia
un altro difensore, Burgnich e Riva segna il gol del 3 a 2.
Immediata la replica tedesca con Mueller, cui segue, solo un
minuto dopo, l'apoteosi italiana. Discesa sulla fascia
sinistra di Domenghini, che raggiunge l'area di rigore
avversaria e detta un passaggio leggermente arretrato, sul
quale arriva in corsa Rivera. Che calcia male, ma spiazza il
portiere tedesco. E' il 4 a 3, risultato definitivo e
impresso nella storia del calcio come il punteggio della
partita più bella mai giocata da due squadre. In Italia, la
gente scende nelle piazze e si dà alla pazza gioia,
improvvisando caroselli che riempiono di colori ogni città.
"Celebrando quella vittoria, l'Italia celebrò se stessa", ha
scritto un autorevole sociologo, Nando Dalla Chiesa. "E'
stata la partita che ha ribaltato alcune credenze relative
alla squadra azzurra, al calciatore italiano e addirittura
all'italiano tout court - è il commento di Gian Paolo
Ormezzano -.
Il mondo si è sorpreso di vederci agonisti, combattivi,
tenaci, volenterosi, disperati di una disperazione lucida. I
primi sorpresi, tuttavia, siamo stati noi stessi.
Probabilmente nessun incontro nella storia del nostro
calcio, nessun avvenimento nella storia del nostro sport ha
inciso così profondamente i pensieri, le credenze
nazionali". Una partita, insomma, che nella storia d'Italia
ha contato addirittura più di quelle giocate dalla nostra
Nazionale nell'82 in Spagna, dove l'undici allenato da
Bearzot vince il titolo mondiale. Allo stadio Azteca, ora,
una targa murata ricorda quell'evento, celebrato anche con
la consegna di una coppa speciale ai tedeschi da parte degli
organizzatori messicani, sulla quale è incisa la frase "Vencido
y vencedor, siempre con honor".
Il trionfo italiano, ad ogni modo, si spegne sotto i colpi
del brasile di Pelé, avversario nella finale del 21 giugno.
I "carioca" vincono 4 a 1, avendo facile gioco su una
squadra stremata dalla fatica di quegli storici tempi
supplementari, e conquistano definitivamente la Coppa Rimet,
avendola vinta già altre due colte, nel '58 in Svezia e nel
'62 in Cile. Ma al di là della spossatezza degli italiani
(che al ritorno, a Fiumicino, sono accolti dal fitto lancio
di pomodori da parte di un pubblico immediatamente dimentico
dell'impresa contro la Germania Ovest), quel Brasile è forse
la miglior squadra che abbia mai solcato l'erba di un campo
da calcio, e ha in Edson Arantes Do Nascimiento (il nome
ufficiale di Pelè) la sua punta di diamante.
Questi è una star già dalla vittoria in Svezia del '58,
quando in finale segna un meraviglioso gol (con due palleggi
si libera del muro difensivo e mette i rete con un tiro
preciso e angolato). Ha doti straordinarie, di controllo di
palla, velocità e forza fisica: nella finale contro l'Italia
segna il primo dei gol brasiliani, un colpo di testa cercato
con un'elevazione impressionante che lascia praticamente a
terra il povero Burgnich, incaricato di marcarlo. Doti che,
oltre a consentirgli di raggiungere ogni tipo di successo
sportivo, lo dipingono come primo, vero personaggio nel
mondo calcistico. Anzi, si può dire che Pelè sia stato - e
sia tuttora - l'ambasciatore nel mondo di questo sport. E'
tra i primi a tentare l'esportazione della cultura
calcistica in un Paese, gli Stati Uniti, che ama
esclusivamente basket, baseball e quel derivato del rugby
conosciuto come football americano.
Il brasiliano, infatti, dopo un fulgida carriera con la
casacca bianca del Santos avrà una breve esperienza nel
Cosmos, a New York. Una squadra, questa, che non offre
talenti ma si limita a "riciclare" vecchie glorie,
coprendoli di denaro e fregiandosi del loro nome quasi per
scopi pubblicitari (tra gli italiani, vi militerà alla fine
degli anni Settanta l'attaccante laziale Giorgio Chinaglia).
Ad ogni modo, Pelè è il primo di una lunga schiera di
personaggi che, a partire dagli anni Sessanta, popola il
mondo del calcio, rendendolo sempre più fenomeno di costume
e, al contempo, attività commerciale. Stilarne un elenco è
impossibile. Si può provare a citarne qualcuno: da Omar
Sivori, l'argentino che farà impazzire i tifosi della
Juventus con i suoi dribbling, danzati da gambe
costantemente scoperte (ha il vezzo di giocare con i
calzettoni abbassati) a Gigi Meroni, l'ala destra del Torino
ucciso da un automobile nel 1967, famoso per le sue
eccentricità (amava dipingere e portare i capelli lunghi
pettinati alla Beatles); da George Best, fantasioso
attaccante del Manchester United, a Johann Cruyff, capo
carismatico di una squadra, l'Olanda, che nella metà degli
anni settanta mette a soqquadro i moduli di gioco
universalmente adottati.
Gli arancioni (dal colore della divisa) vanno in campo e
fanno una cosa che chiamano "calcio totale": attaccano in
dieci, si difendono in undici (il portiere, inevitabilmente,
non può partecipare alla prima fase). Un modulo che verrà
poi ribattezzato "a zona": ogni giocatore presiede un
settore del campo e deve occuparsi di quanto accade nei
metri quadrati a sua disposizione. Così giocando, l'Olanda
di Cruyff arriva a disputare due finali mondiali
consecutive. La sorte, tuttavia, vuole che avversari siano
in entrambe le occasioni le nazionali del Paese
organizzatore: la Germania Ovest (1974) e l'Argentina
(1978). E per due volte, l'Olanda soccombe.
La vittoria dell'Argentina, però, merita di essere ricordata
non solo per ragioni calcistiche, ma soprattutto per quelle
sociali e politiche. Nel Paese governa infatti una giunta
militare che non lesina repressioni e che chiude la società
sotto una cappa di grigiume. La notte del 25 giugno, dopo
che la nazionale ha inflitto un pesante 3 a 1 agli olandesi,
il Paese esplode in una festa che, per usare le parole di
Ormezzano, "annichilisce (…). Qualcuno scopre il diritto di
questa nazione a godere, nonostante tutte le sue angosce
politiche, una profonda, assoluta felicità: Videla, capo
della giunta militare (…), è lestissimo a inventarsi sul
volto, di solito assai triste, un bel sorriso, e nello
sfruttare il successo per dire che l'anima autentica
dell'Argentina è quella, che il paese vuole festa, gioia,
pace, e che sono brutti e cattivi quelli che gli impediscono
di ottenere ciò".
Il calcio, insomma, torna a parlare, come negli anni '30, il
linguaggio della politica; ma anche il linguaggio della
ribellione sociale. Questo secondo aspetto, differentemente
dal primo, va intensificandosi durante gli anni '80 grazie
ad un diffuso fenomeno di esasperazione del tifo da stadio.
Se fino ad allora nei posti situati in curva (il settore più
economico) si andava per guardare la partita, dagli inizi
degli Ottanta si va per sfogare tensioni sociali. Le
tifoserie si trasformano in veri e propri club, spesso
frequentati da un sottoproletariato urbano che vede nei
novanta minuti della domenica il modo per buttar fuori dal
proprio corpo la rabbia covata in una settimana di grigia
insoddisfazione. E, come di solito vanno questo cose,
l'unione fa la forza.
In molte curve si distinguono gruppi di tifosi
particolarmente votati alla violenza, che si gemellano con
omologhi di diverse tifoserie e dichiarano una vera e
propria guerra a squadre che la storia del calcio - magari
per la frequenza degli incontri, o per il fatto di aver sede
nella medesima città - ha voluto rivali sportive. Il
fenomeno della violenza in uno stadio ha il suo picco più
drammatico in una partita giocata allo stadio Heysel di
Bruxelles il 29 maggio 1985. E' in palio la Coppa dei
Campioni, e in quella finale se la contendono gli inglesi
del Liverpool e gli italiani della Juventus. La scellerata
organizzazione belga mette a stretto contatto le due
tifoserie nella curva Z, ma soprattutto lascia che gli "hooligans"
inglesi entrino nello stadio con un impressionante carico di
birra, che non esistano a terminare ben prima che cominci la
partita.
Sotto gli influssi dell'alcool, alcuni di loro cominciano
una carica al settore adiacente, dove risiedono gli
italiani, tra i quali molti padri di famiglia con figli a
seguito. Per evitare il bombardamento di cocci di bottiglia
e spranghe di ferro, la folla si ammassa contro i muretti di
protezione. C'è chi, in quell'assembramento pauroso, rimane
soffocato; c'è chi fa un volo di venti metri verso il basso,
il muretto di protezione avendo ceduto sotto il peso della
folla; c'è chi, nel tentativo di sfuggire, scavalca un
cancello di protezione ma perde l'equilibrio e viene
trafitto dagli spuntoni. Tutto ciò accade sotto gli occhi
dell'inerme polizia belga e sotto quelli delle telecamere,
che mandano in eurovisione la carneficina. Che conta, alla
fine, 39 morti, di cui 36 italiani. E' la notte più
allucinante della storia del calcio. Altri tifosi juventini,
seduti nel settore opposto a quello della strage, capiscono
cosa sta accadendo e, per entrare in campo, tentano di
divellere la rete di protezione.
I giocatori sono chiusi negli spogliatoi, raggiunti da
sporadiche notizie. La voglia di giocare non c'è più, ma la
partita viene comunque disputata per evitare ulteriori
disordini (quali altri?, vien da chiedersi dopo quanto è
accaduto).
Vince la Juventus, con un gol segnato da Michel Platini
grazie a un rigore inesistente per un fallo subito dal
bianconero Boniek ben al di fuori dell'area di rigore. In
una finale ordinaria, quella decisione avrebbe scatenato
continue proteste dei giocatori penalizzati, ma in quel
momento nessun inglese ha il coraggio di protestare.
La notte dell'Heysel non è certo il primo episodio di
violenza calcistica, che ha conosciuto ben altri bilanci
(per esempio, novantun morti durante una partita a
Sheffield, in Inghilterra, nel maggio dell'89). I primi
scontri tra facinorosi, in Italia, si registrano addirittura
nel luglio del 1925 a Torino, con una sparatoria tra tifosi
dei granata e del Genoa che fortunatamente non ferisce né
uccide alcuno. La finale tra Juventus e Liverpool, però,
complice la ripresa televisiva, rappresenta l'icona della
violenza da stadio, alla quale si torna con la memoria ogni
volta che gli spalti offrono lo "spettacolo" di tifosi che
manifestano nel modo sbagliato il proprio entusiasmo.
Quello della violenza, ad ogni modo, è uno dei molti aspetti
di un'esasperazione che dilaga in tutto l'ambiente, e che
dalla metà degli anni Novanta ha conosciuto un'impennata
grazie alle nuove regole sulla circolazione dei giocatori
imposte da una sentenza emanata nel '95 dalla Corte di
Giustizia dell'Unione Europea. Una decisione storica, che
sancisce la libera circolazione dei calciatori sul
territorio europeo - nel rispetto del principio della libera
circolazione dei lavoratori - e che consente quindi a ogni
squadra di far giocare un calciatore comunitario in ogni
momento del campionato. Risultato: squadre infarcite di
campioni stranieri (in omaggio ad una regola scellerata
secondo la quale chi ha un cognome straniero è per forza un
campione) e calo pauroso del tasso di affetto verso i colori
della maglia, elemento imprescindibile nella filosofia del
calcio.
In Europa, insomma, si aggira un esercito di mercenari del
pallone che firma contratti laddove il profumo del denaro è
più intenso, grazie anche alle migliaia di miliardi che le
emittenti televisive - satellitari e non - versano nella
casse delle società per acquistare i diritti di
trasmissione. Un fenomeno, che, inoltre, da una lato rende i
calciatori veri e propri personaggi televisivi, dall'altro
li costringe a un calendario serrato di partite, con effetti
sul rendimento in campo talvolta deleteri. E' un calcio,
insomma, che odora sempre più dell'asettico degli studi
televisivi e sempre meno dell'erba dei campi di gioco.
Bibliografia
Una storia del calcio mondiale, di Gian Paolo Ormezzano -
Ed. Longanesi, Milano 1989.
La partita del secolo, di Nando Dalla Chiesa - Ed. Rizzoli,
Milano 2001
Il romanzo del vecio, di Gigi Garanzini, Enzo Bearzot - Ed.
Baldini & Castoldi, Milano 1997
La mia vita come una partita di calcio, di Michel Platini -
Ed. Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1990
di IGOR PRINCIPE
Ringrazio per l'articolo
FRANCO GIANOLA, direttore di STORIA IN NETWORK
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Cuper:
"Resto e vinco qui" -
"Nessuno
mi toglierà questa idea. Sia io che Moratti
siamo concentrati sul secondo posto, poi
parleremo". "Se Ronaldo fosse rimasto...".
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Nessuno mi
toglierà questa idea. Sia io che Moratti siamo
concentrati sul secondo posto, poi parleremo".
"Se Ronaldo fosse rimasto..."APPIANO GENTILE, 16
maggio 2003 - "Sono convinto di restare e che
vincerò qualcosa d'importante con l'Inter.
Nessuno mi toglierà questa idea". Aspettando
Moratti, parla Cuper. Ostenta sicurezza il
tecnico argentino sul suo futuro all'Inter, ma
quando si affonda sembra non esserne troppo
convinto nemmeno lui. Si dice che quelle di
Modena e Perugia potrebbero essere le sue ultime
volte sulla panchina nerazzurra, ma Cuper non è
d'accordo: "Non credo. Ho parlato con il
presidente al telefono. Abbiamo parlato di tante
cose, del futuro. Sia io che il presidente
pensiamo alle ultime due partite. Arrivare
secondi è importantissimo, consente di
programmare meglio la prossima stagione". Ma c'è
qualcosa da chiarire? "Noi abbiamo dei punti da
chiarire e in questa conversazione parelermo di
tutto quello di cui si può parlare".
Si dice anche che
Cuper potrebbe rimanere, ma i suoi collaboratori
no. Accetterebbe di lavorare senza il
preparatore Alfano? "Non posso rispondere ad
ipotesi ma solo a cose concrete. Per ora questo
non è ancora successo e non credo succederà".
Mai pensato di lasciare? "No, perché ho preso un
impegno con l'Inter e non posso dire che me ne
vado. Sono un uomo responsabile. Se poi dovessi
avere la sensazione di non riuscire più a
gestire un club come l'Inter, allora d'accordo.
Ma non è così. Ho firmato un contratto con l'Inter
sino al 2005 e solo un motivo importante mi
spingerebbe ad andarmene, non certo
l'eliminazione nella semifinale di Champions
League. Un conto sarebbe stato essere eliminati
nel preliminare, un altro in semifinale. Allora
il Real che è uscito cosa è, un casino assoluto?
No". Guardando indietro, il rimpianto più grande
può essere l'infortunio di Crespo. "Gli
infortuni sono una cosa importante, perché
possono condizionare. Se non puoi fare scelte
devi modificare qualcosa e non è certo l'ideale.
Non è questo però l'unico motivo per cui non
abbiamo vinto lo scudetto o la Champions".
I tifosi sono
sempre più delusi. "Capisco la gente. Dopo tanti
anni d'attesa sono costretti ad aspettare
un'altra stagione per vincere. È una cosa molto
dura. Ogni volta che mi siedo in panchina e
guardo la curva penso che sarà difficile per
loro aspettare. Capisco il loro dolore e la loro
rabbia ma analizzando queste due stagioni credo
che io possa vincere uno scudetto qui all'Inter.
Una stagione così dura deve servirci da
esperienza per il prossimo campionato". Inter
fuori dalla Champions, come il Real. Come dire
Cuper-Ronaldo 0-0. Solo che il Fenomeno aveva
detto che se ne andava per vincere...
Soddisfatto? "No. Per prima cosa perché io non
sono vendicativo. Ronaldo ha deciso di andar via
perché...Perché non lo so. E continua ancora a
parlare di me. Se ne è andato perché voleva
vincere qualcosa d'importante con il Real. Oggi
mi viene da pensare che se fosse rimasto avremmo
potuto vincere qualcosa d'importante qui".
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1- Inter Milano ITA 269.75
2- Arsenal ENG 265.28
3- Real Madrid ESP 265.00
4- Manchester United ENG 259.50
5- Juventus ITA 255.60
6- AC Milan ITA 253.10
7- Valencia ESP 241.43
8- Bayern Munich GER 232.53
9- Borussia Dortmund GER 225.30
10- FC Porto POR 224.50
11- Newcastle United ENG 222.83
12- Independiente ARG 218.68
13- Deportivo La Coruna ESP 218.36 |
14- Santos BRA 215.89
15- Lazio ITA 215.73
16- Ajax NED 215.11
17- Real Sociedad ESP 214.25
18- Besiktas TUR 209.79
19- San Lorenzo ARG 204.00
20- PSV NED 202.53
21- Celtic SCO 200.83
22- Boca Juniors ARG 196.97
23- Club Brugge BEL 194.38
24- Corinthians BRA 193.50
25- River Plate ARG 190.74
Giuseppe Sapienza -
Ufficio Stampa
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UN
ALTRO PRIMATO PER L'INTER: L'AMERICANA ESPN LA PONE
IN CIMA ALLA SPECIALE CLASSIFICA DEI TOP 25
Lunedi, 10 Febbraio 2003 16:16:28 MILANO -
Sviluppata dallo staff di
Espn, gruppo media americano, la classifica dei "Top 25
club", aggiornata a ieri, consegna all'Inter un altro
primato nella giornata dei primi posti. Infatti, oltre
al top nella classifica della serie A, in quella della
solidarietà (con Inter Campus) e dei tifosi allo stadio,
l'Inter, secondo Espn, primeggia in quella assoluta
mondiale. Qui di seguito pubblichiamo la classifica di
Espn:
dal sito
www.inter.it
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CARRIERA
HECTOR RAUL CUPER
|
Nato a SANTA
FE' (ARG) il 16/11/1955 |
|
Stagione
|
Squadra
|
Serie
|
Piazzamento |
2001/2002 |
INTER |
Serie
A |
2 |
2001/2002 |
INTER |
Serie
A |
3 |
2000/2001 |
VALENCIA |
Liga |
5 |
1999/2000 |
VALENCIA |
Liga |
3 |
1998/1999 |
MAIORCA |
Liga |
3 |
1997/1998 |
MAIORCA |
Liga |
5 |
1996/1997 |
LANUS |
Serie
A ARG |
11 |
1995/1996 |
LANUS |
Serie
A ARG |
3 |
1994/1995 |
HURACAN |
Serie
A ARG |
19 |
1993/1994 |
HURACAN |
Serie
A ARG |
2 |
1992/1993 |
HURACAN |
Serie
A ARG |
7 |
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