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ZANETTI ANCORA UNA PARTITA POI FAI IL FACCHETTI
Una figurina che ogni padre metterebbe in mano al proprio figlio come un santino.

Articolo di Luigi Garlando
pubblicato da Gazzetta.it (30 Aprile 2013)

Javier Zanetti è una figurina che ogni padre metterebbe in mano al proprio figlio come un santino, a prescindere dal campanile del tifo: gioca come lui, comportati come lui. Il capitano nerazzurro è da anni una stella polare indicata ai giovani che si incamminano nello sport.
La sua lezione più preziosa è la dignitosa accettazione della sconfitta e l’orgoglioso sforzo per ripartire. Una lezione straordinariamente moderna oggi che ai ragazzi si insegna altro: che la sconfitta è la spia del fallimento, da evitare in tutti i modi, e non un passaggio naturale e istruttivo per migliorarsi. Detto con rispetto, Zanetti ha perso di tutto con l’Inter e con l’Argentina: coppe, scudetti, quella finale olimpica del ’96 con la Nigeria di Kanu che sembrava già vinta... Per non parlare del 5 maggio. Zanetti ha annodato una all’altra quelle delusioni e ne ha fatto una corda solidissima con cui si è arrampicato fino alla gloria somma del Triplete. La sua traiettoria calcistica ha la forza di una parabola. Allenato da una vita a reagire alla sventura, Zanetti ha reagito d’istinto, con la solita forza, un minuto dopo l’incidente di Palermo: «La mia carriera non è finita. Cambio solo le gomme». Comprensibile, doveroso. Imporsi un traguardo, crederci, significa già cominciare a guarire.
Ieri, il giorno dopo, più a freddo, ha usato parole significativamente diverse: «Voglio tornare anche per una partita sola davanti ai miei tifosi». Forse la precisazione è un primo passo verso una nuova lezione del capitano: l’accettazione serena della legge del tempo e di un destino che ha colpito duro, ma dopo aver concesso tanto. La rottura del tendine d’Achille non è un infortunio come gli altri, è un crollo da usura, è il corpo che dice basta, è la campanella dell’ultimo giro. Pensare di tornare in campo per «una partita sola», per congedarsi in modo festoso dal proprio popolo, dopo un’avventura irripetibile, ha un senso. Molto meno pensare di prolungare ad oltranza la carriera, dopo un infortunio del genere, a 40 anni. Cosa avrebbe da guadagnarci? Nuovi record da incidere sulla fascia di capitano? La gloria non è un surplace alla Maspes.
E’ una volata con le gambe forti. Più che prolungare la propria visibilità, conta salvaguardare il proprio ricordo, la propria statua costruita in 20 anni di splendida carriera e non corromperla con le ultime martellate. Chi ha amato Bjorn Borg avrebbe evitato con tutto il cuore di vederlo armeggiare nel ’93 con la sua vecchia racchetta di legno e perdere contro le comparse. La stagione in corso ha mostrato Zanetti in difficoltà atletica come mai in passato. Potrebbe esserlo di meno tra un anno, dopo un infortunio tanto grave? Una grande bandiera smette di appartenere solo a se stesso, deve rendere conto anche a chi la sventola: chi lo ama vuole che resti il trattore che arava la fascia, che sradicava palloni, che si avvitava su stesso e ripartiva inarrestabile. Almeno nel ricordo. Non sarebbe stato facile per Zanetti decidere di fermarsi, ora l’infortunio gli apre nuove prospettive. Ci sono sventure che Alessandro Manzoni chiamava «provvide», perché nella sofferenza introducono a svolte sagge.
Nel ’78 Giacinto Facchetti avrebbe potuto giocare un altro Mondiale, ma ascoltò il suo corpo e con grande onestà disse no a Bearzot che lo volle in Argentina come capitano non giocatore. Chiuse lì una carriera leggendaria. Avrebbe servito l’Inter da dirigente fino agli ultimi giorni. E’ il tappeto che si srotola ai piedi di Zanetti: diventare il nuovo Facchetti della giovane Inter che sta per nascere, il dirigente di personalità e presenza di cui la squadra ha tanto bisogno, restando la bandiera di sempre. Giocherebbe per la sua Inter e nell’immaginario continuerebbe a correre.
 
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L'ANIMA AZZURRA DI FACCHETTI:"DOPO L'INTER, SOLO IL NAPOLI" Giacinto e l'attrazione per il capoluogo partenopeo svelati nel bel libro del figlio Gianfelice. Quanti incroci: la monetina degli Europei e la prima rete in assoluto, siglata a Bugatti su assist di Picchi. Sino al processo di Calciopoli.

Articolo di Giovanni Marino
pubblicato  da Repubblica.it (01 Ottobre 2011)

C'era Napoli nel cuore di Giacinto Facchetti. Ed è una piacevole sorpresa scoprire che il capitano della Nazionale da Treviglio, profondo Nord, il terzino goleador dell'Inter ambisse a vestire la maglia azzurra qualora avesse dismesso l'amata casacca. Indossata per l'intera carriera, dai Sessanta ai primi Ottanta.
 

C'era molto che riguardasse il Napoli e Napoli nel destino di Facchetti. Perché agli azzurri Giacinto segnò il primo gol in serie A. E al San Paolo ebbe una emozione unica: conquistare con un testa o croce di una monetina il pass per la finale degli Europei che l'Italia avrebbe poi vinto.
 

C'è ancora Napoli, oggi, per i Facchetti. Giacinto, scomparso anni fa vinto da un male incurabile, sempre fiero oppositore del calcio inquinato e Gianfelice, il figlio che ora ne diffonde i messaggi positivi di lealtà e sportività e ne protegge la figura in Tribunale, al Centro direzionale, da chi vorrebbe macchiarla nello squallido scenario di Calciopoli.
 
Racconta questo e molto altro il bel libro di Gianfelice Facchetti "Se no che gente saremmo", edito da Longanesi, appena uscito nelle librerie. La storia di un atleta silenzioso e sensibile, talentuoso e mai spaccone; e di un figlio che ne tratteggia la figura di uomo e calciatore con una parola sola (da qui il titolo del volume).
 
IL SECONDO AMORE. Dunque, Napoli. Giacinto svelò quale era il suo secondo grande amore calcistico con il consueto pudore. Racconta suo figlio: "Papà disse che se avesse mai dovuto lasciare l'Inter gli sarebbe piaciuto giocare nel Napoli, la squadra a cui aveva segnato il suo primo gol in serie A. Il cuore del Sud Italia: niente di più lontano dalla sua nebbia e dai posti che d'inverno inghiottiva, niente di più diverso dalla sua mitezza lombarda che l'istinto partenopeo per cui avrebbe voluto correre". Bella la riflessione di Gianfelice sulla passione azzurra del padre: "Forse certe cose ognuno di noi le ha ha sempre sapute; al di là delle radici, le strade e le città dei nostri passaggi disegnano una mappa che alla fine del viaggio mostrerà luoghi ricorrenti, scelti o che ci hanno trovato, in cui è rimasto un frammento della nostra anima. Napoli, nella storia di papà, è uno di questi".
 
IL PRIMO GOL. Giacinto e Armando Picchi, altro grande difensore scomparso, erano amici. Un rapporto saldato anche da un ricordo speciale: la prima rete in serie A del terzino goleador. Guarda caso, al Napoli. Era il trenta maggio del 1961. L'assist, evento raro, glielò forni proprio Picchi. Con la voce del padre Gianfelice ricostruisce l'azione: "Nei pressi dell'area napoletana Armando si sbarazzò di un avversario e quando vide il portiere venirgli incontro per rovinargli la festa fu semplicemente magnifico, effettuò un cross al millimetro e la palla arrivò sui miei piedi; in quel momento la mia concentrazione era al massimo: non pensavo a nulla, né alla folla né a me stesso. Pensavo solo che il mio dovere era quello di colpire di piatto quella palla e di mandarla nel posto giusto. Lo feci e la palla finì in rete. Il mio primo in serie A"". Per la cronaca la gara di Milano finì tre a zero con le altre reti di Corso e Bolchi; Bugatti fu il primo portiere battuto da Giacinto in un Napoli che in avanti contava su Di Giacomo, Pivatelli, Tacchi.
 

QUELLA MONETINA A FUORIGROTTA. Campionati d'Europa 1968, stadio San Paolo, Napoli. Italia e Unione Sovietica si giocano l'accesso alla finale ma non riescono a superarsi. Neppure ai supplementari. I rigori non sono contemplati e tutto verrà deciso dalla sorte. Dal lancio di una monetina. Tocca a Facchetti decidere quel match con il fato. Passa l'Italia. Giacinto la ricordava così, quella partita vinta con la dea bendata: "Fare gol con la monetina è una cosa maledettamente difficile, davvero ci provai con tutte le mie forze e con una grande tensione. Divenni anche prepotente, per la prima volta nella mia vita. Infatti era successo che l'allenatore dei sovietici, signor Jakuscin, voleva scegliere lui la parte della medaglia, una moneta da 10 franchi francesi dove da una parte c'erano degli stemmi e dall'altra delle figure. Anzi, aveva già scelto. Jakuscin disse al capitano Shesterniev di indicare le figure. Allora mi opposi". Una mossa vincente: testa o croce, Giacinto disse testa, corrispondeva alle figure. "La monetina cadde a terra e si mise a rotolare, non si fermava mai... ecco si è fermata, ecco vedo le figure, allora non capisco più niente: credo di aver scardinato la porta dell'arbitro e quella dei nostri spogliatoi. Entrai come una bomba. urlando".

LA FESTA SILENZIOSA DI BURGNICH AL SAN PAOLO. Negli spogliatoi del San Paolo è festa grande. Tutti ebbri di gioia, tutti tranne uno: Tarcisio Burgnich, roccia difensiva dell'Inter di Helenio Herrera. Gianfelice ricorda cosa raccontò il padre: "Tarcisio non mi saltò al collo e non mi baciò. Era rimasto tranquillamente seduto sulla sua panchina e stava ancora togliendosi le scarpe da gioco piene di fango. "Tarcisio - gli dissi - ma non sei contento?". E lui: "Certo che lo sono ma io sapevo già come sarebbe andata a finire. sapevo già tutto... l'avevo detto a tutti: va di là Facchetti e quello sceglierà la parte giusta, non avevo dubbi. Ho sempre avuto fiducia in te, Giacinto". La serafica e granitica fiducia di Burgnich nello spogliatoio di Napoli era un episodio che non potevo tralasciare". Che incroci del destino: Tarcisio, il terzino destro dell'Inter euromondiale avrebbe poi concluso la carriera proprio nel Napoli. Il secondo amore calcistico di Giacinto.


 

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"PRETE, TABELLA E UNA MIA FOLLIA. COSI' FIRMAMMO LA GRANDE RIMONTA"
 A 40 anni dall'undicesimo scudetto interista Sandro Mazzola rivive il campionato del 1971 conteso, proprio come adesso, a Milan e Napoli. E svela: "Quando entrai nello spogliatoio dell'arbitro a fine primo tempo e gli urlai: lei ci sta penalizzando..."

Articolo di Giovanni Marino
pubblicato  da Repubblica.it (31 Marzo 2011)

L'Inter stagione '70-'71, da sinistra in piedi Mazzola, Facchetti, Bellugi, Giubertoni, Jair, Vieri; accosciati: Bertini, Boninsegna, Bedin, Burgnich, Corso. Foto tratta da un articolo di Giovanni Marino del 31 Marzo 2011, pubblicato su Repubblica.it

Napoli, sull'aereo che rulla sulla pista di Capodichino tre leggende del calcio Mondiale discutono animatamente. Burgnich, il granitico Tarcisio dell'Inter euromondiale degli anni Sessanta è il più accanito. "Possiamo vincerlo ancora, oggi abbiamo giocato proprio bene, dipende solo da noi", incita il difensore nerazzurro. Vicino, siede Sandrino Mazzola, figlio del mitico Valentino granata, bandiera e capitano del Biscione. Proprio davanti c'è Facchetti, l'altro terzino delle Coppecampioni e Intercontinentali, il primo difensore capace di segnare come un bomber. Tutti reduci da una sconfitta, bruciante, al San Paolo con il Napoli di Juliano, Zoff e Altafini. E da un tremebondo inizio di torneo che è già costato la panchina al difficile Heriberto Herrera.
 
CALCOLI MATEMATICI - E' il tardo pomeriggio del 22 novembre 1970 quando l'aeroplano decolla, direzione Milano. La discussione si infervora. "A un certo punto io mi convinco - racconta a "Repubblica" Mazzola, custode di tutti i segreti della Grande Rimonta nel campionato '70-'71 di cui ricorre adesso il quarantesimo anniversario - e scuoto il sedile di Giacinto per coinvolgerlo. Passano pochi minuti e ci ritroviamo a far calcoli: io tiro fuori un opuscoletto con tutte le giornate ancora da disputare e cominciamo a fare la famosa tabella". Che poi sarebbe? "Assegnare, partita per partita, i punti possibili a Napoli e Milan, che ci precedono e... a noi stessi. Beh, viene fuori che alla fine vinciamo noi se rispettiamo la tabella".
 

I DUBBI DI FRAIZZOLI - Così, letteralmente per aria, nasce la ferrea volontà di cucirsi addosso l'undicesimo scudetto. "Tutti e tre, i vecchi della Grande Inter ci alziamo e andiamo dal presidente Ivanhoe Fraizzoli. Lui, abbatuttissimo, seduto da solo nella parte finale dell'aereo, ci rinvia al mittente parlando milanese stretto: "Scudetto? Figlioli miei andate, andate su, che fantasia figlioli miei, ma di che parliamo? Siamo a 7 punti dal Napoli e a 6 dal Milan, ma va là, dai". Comprensibile, ma noi ci crediamo e in questo sport se ci credi davvero sei a metà dell'opera".

IL DISTACCO DA MILAN E NAPOLI -  Alessandro Mazzola ha voglia di raccontare. I suoi ricordi, 40 anni dopo, sono ancora vividi. "Fu un'impresa, l'ultima della Grande Inter, e ne sono tuttora fiero". Nessuna presunzione. Ha ragione: nell'epoca del campionato a 16 squadre e dei (soli) 2 punti per una vittoria, l'Inter seppe rimontare a partire dalla ottava giornata tutto il vantaggio accumulato dalle due squadre che la precedevano per andare a vincere, addirittura, con un distacco di 4 punti. "Già, da quel giorno non perdiamo più, le vinciamo quasi tutte, se non sbaglio concediamo solo tre pareggi, di cui due alla fine, a cose fatte, il tricolore è nostro, ma ci sono altri retroscena".

DA HERIBERTO A INVERNIZZI - Sandrino non si fa pregare. "Dunque, al timone non c'è più Heriberto Herrera ma Gianni Invernizzi e l'atmosfera nello spogliatoio si è rasserenata. Povero Heriberto, era un ottimo allenatore, profeta di un calcio moderno, così moderno, il movimiento (come diceva lui) senza palla, che noi non lo capivamo. E poi il carattere era difficile, chiuso, introverso. Con Gianni, invece, tutta un'altra musica. Per prima cosa rimette in squadra tre giocatori che Heriberto aveva fatto fuori, tutti fortissimi, Gianfranco Bedin, Jair da Costa e Mario Bertini, se non ricordo male. Nasce la tabella e a questa aggiungiamo una scaramanzia: un prete".

LE PREGHIERE DI DON BOMBA - "Il mio prete - prosegue divertito Mazzola -  perché era stato professore alla scuola Armando Diaz dove ero andato e in seguito avrebbe anche celebrato le mie nozze. Si chiamava monsignor Spada, da ragazzini lo avevamo soprannominato Don Bomba: era alto e grosso, con un bel vocione e abitava vicino al Duomo. Una sera, visto che Invernizzi aveva l'abitudine di riunirci il venerdì per cena in un ristorante della zona, proposi di andare a trovarlo. Lui ci accolse e ci ordinò di confessarci: "Siete biricchini voi giovani calciatori e se volete vincere dovete dire tutto al Signore". Insomma, la domenica seguente si vinse e per tutto il campionato Don Bomba fu, assieme, il nostro confessore e il nostro talismano".
 
IL SINISTRO DI MARIOLINO - E arrviamo alle sfide di ritorno con le grandi rivali. Il Milan e il Napoli. "Il derby è cruciale. Siamo molto tesi. Niente affatto sicuri di vincere. Risultato obbligato, per noi. E la gara resta così, quasi sospesa, finché il geniale sinistro di Mariolino Corso su punizione, la sua specialità, non ci porta in vantaggio. Poi chiudo io la gara su azione di Jair da Costa, contropiede veloce, delizioso cross per Roberto Boninsegna che colpisce di testa e prende il palo oppure ci arriva Fabio Cudicini, comunque sia io ribatto in rete. Due a zero, ma sappiamo che non è finita lì".   
 
IO NELLO SPOGLIATOIO DELL'ARBITRO - Altro match fondamentale per completare il sorpasso e lasciarsi definitivamente dietro rossoneri e azzurri è la gara con il Napoli. Si gioca a San Siro, il 21 marzo 1971. E lì ne accadono di tutti i colori. Mazzola, 40 anni dopo, con il sorriso sotto i celebri baffi, svela un suo clamoroso blitz: "Feci una cosa che non si può fare, proibita dal regolamento. Una cosa sbagliata. Irruppi nello spogliatoio dell'arbitro e gliene dissi quattro. Ma non volevo ottenere favori. Piuttosto intendevo riequilibrare una conduzione di gara a noi assolutamente sfavorevole". E' il suo punto di vista. Che contiene comunque un'ammissione.

DALL'ESPULSIONE AL BLITZ - Il suo racconto: "Il Napoli è avversario tosto, forte e quadrato. Con giocatori di classe cristallina come Dino Zoff in porta, Totonno Juliano a centrocampo, Josè Altafini in attacco. Sta disputando un grandissimo torneo. E' in corsa. E se la gioca. Va in vantaggio con Altafini che riprende una respinta di Lido Vieri. Subito dopo l'arbitro, l'internazionale Sergio Gonella, ci butta fuori Burgnich per un fallo su Umile. Decisione che secondo noi non ci sta. Protestiamo, in quei primi 45 minuti ci sentiamo presi di mira dal direttore di gara e non ci va giù". Sotto di un gol e in dieci contro undici, l'Inter vede svanire la Grande Rimonta. Ma attenti al colpo di teatro. "Finito il primo tempo, mentre i compagni sono nello spogliatoio, io mi dirigo in quello dell'arbitro Gonella. Entro come una furia e lo aggredisco verbalmente. Rammento di avergli detto che non poteva arbitrare in quel mondo, che ci stava penalizzando gravemente e di aver usato qualche espressione colorita il cui senso era: o si dà una regolata o da San Siro usciamo tutti fritti, finisce male: noi, perché perdiamo partita e scudetto e lei, perché con il suo arbitraggio sarà stato il principale responsabile della sconfitta. Gonella è esterrefatto, mi dice qualcosa del tipo: "Mazzola, esca immediatamente da qui, ma cosa fa, come diavolo si permette?". Mi guarda assolutamente sconcertato e ha ragione...".

IL RIGORE DI BONIMBA - Secondo tempo. Cambia tutto. L'Inter attacca a testa bassa e dopo neppure dieci minuti ottiene un rigore. Contestatissimo a dir poco, anche 40 anni dopo: un (ipotetico) fallo di ostruzione in area di Panzanato che protegge l'uscita di Zoff proprio dall'arrivo di Mazzola. Per giunta, Boninsegna lo realizza fermandosi platealmente nella rincorsa. Altafini mima la scena con Gonella chiedendogli almeno di far ripetere il penalty. Nulla da fare. A quel punto il Napoli perde la testa e la partita. Zoff, innervosito, compie una delle sue rarissime papere non trattenendo un colpo di testa in acrobazia sempre di Boninsegna che quasi si spacca una tempia mentre il difensore Panzanato cerca un plastico rinvio. Inter 2, Napoli 1. Lo scudetto prende una sola strada e non porta a Sud.

SQUADRA DI CAMPIONI - Mazzola ammette, ma non ammaina la bandiera dell'orgoglio
interista: "Col senno di poi, probabilmente, misi addosso un tale senso di colpa a Gonella che finii per condizionare il suo arbitraggio. Sinceramente penso che alla fine avremmo vinto lo stesso: in quella squadra c'erano sei o sette giocatori dell'Inter che aveva dominato il mondo. E poi ragazzi del calibro di Mauro Bellugi, Mario Giubertoni, Vieri, Bertini, un regista dai piedi buoni come Mario Frustalupi e quel gran goleador acrobata che era Bonimba Boninsegna. Per non parlare di due "bambini" che avrebbero fatto tanta strada: Ivano Bordon e Gabriele Oriali. Tanta roba, insomma. Giocatori tecnici e dal carattere indomito, altrimenti non avremmo firmato quella strepitosa rimonta. Era una corsa a tre, noi, il Napoli e il Milan. Curioso, proprio come adesso...".


 

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"LE CONFESSIONI DI CAPITAN MAZZOLA" Quel blitz dall'arbitro nel match col Napoli"
Stagione 1970-1971: Napoli, Milan e Inter si contendono lo scudetto. Proprio come adesso. Nel giorno di primavera si gioca un match decisivo. Gli azzurri vanno in vantaggio e sognano. Ma poi accade qualcosa negli spogliatoi e la gara si ribalta. Tra le proteste di Ferlaino, Altafini e compagni. La bandiera nerazzurra racconta tutto.

Articolo di Giovanni Marino
pubblicato  da Repubblica.it (31 Marzo 2011)
 
 

Il gol vittoria di Boninsegna che quasi si spacca la testa mentre Panzanato tenta il rinvio. Foto tratta da un articolo di Giovanni Marino, pubblicato su Repubblica.it del 31 Marzo 2011Gli americani li chiamano cold case. Si riferiscono a quei gialli che trovano soluzione dopo tanto, tanto tempo. In questa storia il cadavere, fortunatamente, non c'è. O meglio, a volerlo cercare è un triangolino tricolore. Di stoffa. Lo scudetto stagione 1970-1971. Che i tifosi storici del Napoli ancora reclamano, ritenendolo scippato, di malamaniera, dall'Inter.
 
 In un match in cui si parlò di un'incursione diretta di un importante giocatore nerazzurro sull'arbitro. Una discussione influente. Al punto da cambiare inerzia e risultato della partita decisiva. Quarant'anni dopo quel giocatore, oggi un distinto signore e opinionista televisivo, svela tutto. Chiude il caso. Con una semplicità disarmante. E i toni giusti, perché sempre di una partita di pallone parliamo.
 
 Sì, quel blitz nello spogliatoio dell'arbitro ci fu. E Sandrino Mazzola, celebre capitano dell'Inter che trionfava in Europa e nel mondo, lo racconta con una attendibilità totale. Perché fu lui a entrare nello spogliatoio del direttore di gara. E a urlargli la sua rabbia. "Ero furibondo - racconta - ho ben presente il senso del mio intervento: arbitro, lei sta favorendo il Napoli, si dia una regolata perché qui finisce male. Non era una minaccia, era quello che provavo".
 
 Ventuno marzo 1971. Il Napoli si gioca lo scudetto a San Siro. E' in piena corsa. Assieme all'Inter e al Milan. Proprio come adesso. Finisce due a uno. La squadra allenata da Beppe Chiappella va in vantaggo con Josè Altafini, poi subisce la rimonta nella ripresa. Doppietta di Roberto Boninsegna. Ma il match, teso e nervoso, è segnato dalle decisioni arbitrali che - giura ancora oggi l'ex presidente Corrado Ferlaino - favorirono sfacciatamente i nerazzurri.
 
 "Sì - spiega Mazzola - feci una cosa proibita dal regolamento. Sbagliata. Con un arbitro internazionale come Sergio Gonella. La partita era di quelle decisive. Il Napoli un avversario forte. Con giocatori di classe come Dino Zoff, Juliano, Altafini. Stava disputando un grandissimo torneo. Noi, dopo un inizio di campionato-choc culminato proprio con la sconfitta al San Paolo all'andata, ko che ci aveva fatto sprofondare a sette punti dagli azzurri e a sei dal Milan, eravamo ripartiti alla grande, complice una tabella stilata da me, Tarcisio Burgnich e Giacinto Facchetti e il cambio dell'allenatore: via il complicatissimo Heriberto Herrera e dentro Gianni Invernizzi, uno di noi. Battere Juliano e compagni, insomma, era vitale".
 Il match si gioca nella giornata di ingresso di primavera ma a San Siro sembra inverno. Cielo cupo e terreno fangoso. Una battaglia. A nervi scoperti. Il primo tempo volge a favore del Napoli. Che segna con Altafini, opportunista nel riprendere una respinta in tuffo di Lido Vieri su colpo di testa di Juliano e conta anche sul vantaggio numerico. "Cosa che ci fece saltare i nervi - rievoca Mazzola - perché l'espulsione di Burgnich per fallo su Umile non ci stava proprio e arrivò durante una fase in cui Gonella fischiava in favore del Napoli".
 
 Sotto di un gol e in dieci contro undici, l'Inter vede svanire la grande rimonta. Ma qui entra in scena uno dei migliori attaccanti della storia del calcio italiano. "Finito il primo tempo, mentre i compagni sono nello spogliatoio, io mi dirigo in quello dell'arbitro Gonella. Entro come una furia e lo aggredisco verbalmente. Rammento di avergli detto che non poteva arbitrare in quel mondo, che ci stava penalizzando gravemente e di aver usato qualche espressione colorita il cui senso era: o si dà una regolata o da San Siro usciamo tutti fritti: noi, perché perdiamo partita e scudetto e lei, perché con il suo arbitraggio sarà stato il principale responsabile della sconfitta".
 
 I ricordi di Mazzola sono vividi: "Gonella era esterrefatto, mi disse qualcosa del tipo: Mazzola esca immediatamente da qui, cosa blatera, ma come diavolo si permette?".
 
 Secondo tempo. Cambia tutto. L'Inter attacca a testa bassa e dopo neppure dieci minuti ottiene un rigore. Contestatissimo a dir poco, anche quaranta anni dopo. Un molto ipotetico fallo di ostruzione di Panzanato proprio su Mazzola. Per giunta, Boninsegna lo realizza fermandosi platealmente nella rincorsa. Il Napoli perde la testa e la partita. Zoff, innervosito, compie una delle sue rare papere non trattenendo un colpo di testa in acrobazia sempre di Boninsegna. Lo scudetto prende una sola strada e non porta a Sud.
 
 Mazzola ammette ma non ammaina la bandiera dell'orgoglio interista: "Col senno di poi, probabilmente, misi addosso un tale senso di colpa a Gonella che finii per condizionare il suo arbitraggio. Ma penso che avremmo vinto lo stesso, in quella squadra c'erano sei o sette giocatori dell'Inter che aveva dominato il mondo". Sipario, il cold case è risolto.

LE FOTO DEL MATCH

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"IO, PICCOLO FACCHETTI TRA I GIGANTI DELL'INTER"
Il racconto vero e appassionato di Gianfelice. I ricordi di Giacinto, i compagni di una squadra che conquistò Coppacampioni, Intercontinentale e scudetti. i rapporti con Sarti, Burgnich, Mazzola, Guarneri. L'amicizia con Boninsegna. E una particolare collezione di figurine

Articolo di Giovanni Marino
pubblicato  da Repubblica.it (15 Dicembre 2010)

Giacino Facchetti - Immagine tratta da un articolo di Giovanni Marino, pubblicato su Repubblica.it del 15 Dicembre 2010

La prima immagine di papà Giacinto sui campi è legata ad Appiano Gentile. Casa Inter, insomma. "Ero piccolissimo, ricordo quelle tute nero azzurre attorno a me che correvano. Io li guardavo, mi sembravano tutti giganti. Erano gentili, si divertivano a farmi calciare un pallone. Sì, ero un bimbo tra i giganti, un bimbo in un mondo magico". Gianfelice Facchetti ha la stessa aria pulita di suo padre Giacinto, lo stesso tono sobrio ed elegante. Giacinto Facchetti: in una parola una leggenda del calcio nazionale e internazionale. Il primo terzino sinistro a difendere e ad attaccare. Il primo terzino sinistro a segnare come un bomber. E a conquistare il mondo con l'Inter. Giacinto se n'è andato qualche anno fa, prima che l'Inter di Massimo Moratti prendesse a vincere ovunque e a raffica. Come lui avrebbe fortemente voluto. Gianfelice, attore-regista di teatro, è uno dei figli, impegnato nel custodirne i valori e lo spirito. Con uno stile inconfondibile, quello di casa Facchetti.

LA TIMIDEZZA DEL CAMPIONE - "Papà - così apre il libro dei ricordi Gianfelice - aveva molto pudore a parlare di sè come giocatore. Non si è mai autocelebrato. Ha vinto tutto, eppure non stava lì a ricordarlo a nessuno. Tantomeno a noi. Sembrerà strano ma solo negli ultimi tempi, grazie a Roberto Boninsegna, con cui pranzava spesso, prese a parlarne. Sembrerà paradossale, ma io, suo figlio, in qualche modo ho recuperato tutta la sua storia sportiva da quando non c'è più. Così ho scoperto quel papà così "normale" che vinceva le Coppe Intercontinentali ed era ammirato in tutto il mondo...".

NOTTE MAGICA COL LIVERPOOL - Ma di tante galoppate sulla fascia, di tante partite epocali, cosa era rimasto nella mente del capitano della Nazionale? "La partita di San Siro con il Liverpool, quella su tutti. Ne avevano prese di santa ragione in Inghilterra, 3 a 1 con cori di sfottò e quel when the saints go marching in che risuonava ancora nelle orecchie di tutti gli interisti. Papà mi raccontava che al ritorno fu tutto magico, che non aveva mai visto lo stadio milanese così carico, al punto da spingere letteralmente tutta la squadra alla clamorosa rimonta. Finì tre a zero per la Grande Inter e papà segno una grandissima rete. Così la canzoncina degli inglesi stavolta la cantammo noi, con qualche parolina cambiata...". 


LA MONETINA EUROPEA - Con l'Italia, Giacinto ha raggiunto anche la finale mondiale del '70, il torneo di Italia-Germania 4 a 3. Tuttavia, dice Gianfelice, della sua lunga e ricca carriera azzurra, papà Giacinto amava ricordare un trionfo passato anche per la dea bendata. "La vittoria del campionato europeo  a Roma, nel 1968, lo inorgogliva e lo divertiva anche per come era avvenuta. In semifinale, a Napoli, finì zero a zero con l'Urss, anche dopo i supplementari. Allora i rigori non venivano proprio contemplati. Così fu il lancio della monetina a decidere il finalista. Il sorteggio favorì l'Italia che poi affrontò due volte la Jugoslavia in finale, la prima finì uno pari, la seconda vincemmo per due a zero. Questo è il ricordo più azzurro di mio padre".

L'INTERCONTINENTALE E LE MINI-COPPE - Tra i successi di Facchetti, naturalmente, le due Intercontinentali. "Che tempi: figurarsi che il premio, mi raccontava papà, allora consisteva nel potersi tenere la maglietta con cui si era giocato e nella consegna di piccole riproduzioni del trofeo mondiale. Adesso sinceramente non so dove siano finite le due mini-Intercontinentali, devono essere da qualche parte. So, invece, che la riproduzione della prima Coppacampioni papà l'aveva data a sua sorella".

PICCOLETTI TERRIBILI - Tante gioie e soddisfazioni sui campi verdi, si perde nella notte dei tempi il ricordo di un Giacinto in difficoltà. "Beh, forte era forte ma c'era un certo tipo di giocatore che gli dava molto fastidio". Chi, Gianfelice? "Mi raccontò di avere sofferto le pene dell'inferno nel marcare quegli attaccanti, ali soprattutto, piccoli di statura e molto rapidi di gambe. Lui, così alto, faceva una gran fatica. Mi parlò in particolare di Giancarlo Danova, detto Pantera, del Milan, con cui poi divenne grande amico; e di Igor Cislenko, ala sinistra dell'Unione Sovietica. Con loro, ammise, non fu facile".  

BONIMBA CHE AMICO - Ma chi era il compagno di squadra più vicino a Giacinto? Sorpresa, non proprio uno della Grande Inter anni Sessanta, ma comunque sempre un grandissimo nerazzurro come Roberto Boninsegna, il goleador dello scudetto del 1971 e della Coppacampioni persa l'anno successivo con il fortissimo Ajax di Cruijff. "Già, Bonimba, che amico per papà. Ce lo siamo ritrovati sempre vicino soprattutto nei momenti brutti, quelli della malattia. Sì, d'accordo, magari erano molto differenti come indole e carattere, ma si trovavano nei valori importanti. Nell'amicizia. Devo dire grazie a Roberto Boninsegna per il tempo che ha passato con noi, Bobo spronava il suo vecchio compagno di squadra a uscire dal suo riserbo, a ricordare. Quando doveva esserci, Bonimba c'era".

SARTI, BURGNICH, FACCHETTI - Nello scioglilingua che qualsiasi interista ha mandato a memoria, altri rapporti di amicizia. "Papà era legatissimo a Tarcisio Burgnich, suo compagno di squadra nella Grande Inter. E poi ad Aristide Guarneri, con cui si vedeva spesso. Personalmente, poi, mi ha davvero colpito Giuliano Sarti, l'ho incontrato solo nel 2008 e, ascoltandolo, mi sono reso conto di quanto fosse simile e vicino a mio padre".

I RAPPORTI CON MAZZOLA - Nei filmati di repertorio, un classico Inter è l'abbraccio tra Sandrino Mazzola e Giacinto Facchetti dopo le innumerevoli giocate vincenti confezionate dai due. Eppure, qualcosa, negli ultimi anni, si era rotto tra il Baffo e il terzino goleador. "Sì, c'era stato qualche screzio ed era calato un certo gelo, non ne conosco i motivi; però devo aggiungere una cosa importante - afferma Gianfelice - quando qualcuno in questi tempi balordi si è permesso di diffamare mio padre, il primo a intervenire con durezza per prendere le parti di chi non c'è più è stato proprio Mazzola. Un giorno, a una presentazione di un libro su mio padre, dove c'era poca gente e nessuna telecamera, intervenne Sandrino, di cui avevo sempre sentito parlare senza mai conoscerlo personalmente. Ebbene, disse cose splendide su papà. Poi gli parlai e, con grande umanità e umiltà, mi spiegò che sì, erano stati davvero molto amici ma poi qualcosa si era rotto. Aggiunse: "Ma forse, se questo è accaduto è perchè ho sbagliato qualcosa io, così come lui, insomma abbiamo sbagliato entrambi". E' bello sapere che, oggi, Mazzola difende sempre l'onore di papà".

CAMBIASSO E LA NUMERO 3 - E oggi, c'è ancora chi festeggia i nuovi trionfi interisti con il numero 3 sulle spalle: è Esteban Cambiasso. Un retroscena che Gianfelice racconta con piacere: "Quando l'Inter vinse il primo scudetto sul campo del Siena, Cambiasso mi telefonò: "Buonasera, sono Esteban, potrei avere una maglia di suo padre, vorrei indossarla e fare festa per il titolo che lui avrebbe voluto vedere e vivere, sa ho conosciuto Giacinto e mi sento molto legato a lui". Gliela diedi, ne abbiamo pochine ormai, di maglie. Il tempo passa, no? La indossò con orgoglio. Poi me la riportò lavata e stirata. Gli dissi: "Esteban, è tua, tienila". Poi ha indossato ancora la 3 nella notte di Madrid. Bello. Dei giocatori attuali lui e Ivan Ramiro Cordoba sono i più vicini a noi, assieme a Javier Zanetti".

I QUADERNI DEL MAGO - Difficile scegliere tra i mille aneddoti che Gianfelice ha ereditato da papà Giacinto. Irrinunciabile quello su Helenio Herrera. "Papà aveva una devozione per il Mago. Fu lui a lanciarlo e soprattutto fu lui a difenderlo perchè, sì, pochi lo ricorderanno, ma all'inizio il pubblico di San Siro prese di mira quel terzino così alto che si spingeva così in avanti. Mago Helenio non fece una piega e lo tenne in campo. Coerente e coraggioso. I due si stimavano molto. Non è un caso se poi Herrera ha voluto che uno dei suoi celebri quaderni con gli appunti sulla Grande Inter finisse proprio al suo terzino. Ogni tanto sfoglio quelle pagine e ritrovo anche mio padre".   


FIGURINE DI PAPA' - Gianfelice continua a "recuperare" la memoria di quel campione inimitabile e di quel padre così discreto rispetto ai suoi successi. Uno dei tanti modi è legato alle figurine. Spiega: "Mi piace trovare tutte le sue immagini sparse per il mondo. Raccogliere le figurine di ogni tipo sparse per le varie nazioni. Sono tantissime, non ci credereste. Foto di ogni tipo, caricature comprese. Rivedo papà Giacinto, rivedo tutte le sue espressioni. Lo rivedo giovane, forte e campione".
 
 

Foto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.itFoto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.itFoto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.itFoto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.itFoto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.it

Foto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.itFoto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.itFoto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.itFoto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.itFoto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.it

Foto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.itFoto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.itFoto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.itFoto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.itFoto tratta da un articolo su Giacinto Facchetti di Giovanni Marino del 15.12.2010, pubblicato da Repubblica.it

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LE CONFESSIONI DI CAPITAN ZANETTI. "Dal caos alle vittorie con l'Inter"
Il nerazzurro si racconta senza reticenze al sito della Fifa: dai 4 allenatori in un anno al primo successo a Parigi. Fino al triplete. E poi i suoi rapporti con Baggio, Ronaldo e Ibra, i segreti dello spogliatoio argentino-brasiliano. Le gioie con il club, le delusioni mondiali con l'Argentina e il sogno-Messi


Articolo di Giovanni Marino
pubblicato  da Repubblica.it (09 Novembre 2010)

Javier Zanetti - foto tratta da un articolo di Giovanni Marino, pubblicato su Repubblica.it del 09.11.2010Magari uno pensa che il top in carriera sia stata la Champions. Il trofeo dei trofei. E invece scopre che per il capitano dell'Inter il momento più bello e intenso, quello insomma che ha sentito di più, va spostato molto indietro: anno 1998, i nerazzurri di Gigi Simoni si giocano la Coppa Uefa (allora si chiamava ancora così) in un derby italiano con la Lazio di Roberto Mancini (in campo, giocatore a tutti gli effetti).

PARIGI LA GIOIA PIU' GRANDE - Teatro del match il Parco dei Principi, a Parigi. La partita si mette subito bene con un gol lampo di Ivan Zamorano. Ma la Lazio reagisce e si fa dura. E' proprio lui, Zanetti, a spegnere le speranze degli avversari. Un grandissimo tiro dalla distanza che si insacca nel sette della porta laziale. Un gioiello (raro, non è certo un goleador) che vale la vittoria finale (poi suggellata dalla segnatura di Ronaldo). Tre a zero: è il primo importante successo dell'era-Moratti. "Quella notte a Parigi è stato il momento più bello di tutti con l'Inter, io lo ricordo in modo particolare perchè fu la prima vittoria con il club e poi anche perchè ebbi la fortuna di firmare una rete importantissima", racconta Javier al sito Fifa.com in una intervista-verità dove svela le gioie ma anche le delusioni della sua vita interista.

IL MURO NERAZZURRO DI MADRID - Parigi dunque, un po' a sorpresa. E la Champions? "Ovviamente non potrò mai dimenticare la notte di Madrid quando abbiamo battuto il Bayern Monaco. Sarò sempre orgoglioso del momento in cui sono entrato nella storia alzando il trofeo da capitano nerazzurro". Emozioni, tante, in terra di Spagna. "Una su tutte, quando siamo usciti per il riscaldamento. E' stata una sensazione unica vedere il muro umano dei nostri tifosi dietro la porta".

IO, BAGGIO, IBRA E RONNIE - Gli chiedono con quale fuoriclasse si sia trovato meglio e lui fa capire che è Roberto Baggio. Alla Fifa risponde con chiarezza ma anche molta eleganza: "Roby è un grande amico, sono felice di averlo conosciuto fiero di aver giocato assieme a lui. Ritengo che Baggio sia stato un giocatore eccezionale, sicuramente il miglior italiano che abbia mai visto in campo": E gli altri? "Ronaldo è stato una forza della natura, un tipo che poteva riuscire a vincere le partite anche da solo. In allenamento non riuscivo proprio a fermarlo... Ibra è uno che può cambiare un match in un attimo con quel fisico e quella forza di carattere".

GLI ANNI BUI - Javier non nega di averne viste di tutti i colori nelle sue 15 stagioni milanesi. Un lungo percorso, fino a giungere alle grandi vittorie. Periodi sportivamente difficili e sofferti che lui non ha dimenticato. E che affronta rispondendo a Fifa.com: "Adesso giocherò il Mondiale per club ad Abu Dhabi e in tutto questo tempo non ho mai perso la speranza di poterci arrivare. Sapevo sarebbe stato difficile, perchè bisognava prima vincere la Champions, ma dentro di me ero certo che sarebbe giunto il nostro momento. Non mi sbagliavo. Certo, abbiamo avuto alcuni momenti difficili, li abbiamo affrontati e ne siamo venuti fuori più forti di prima. Il mio rapporto con il club è saldo, lo è sempre stato, anche se giudico la stagione 2000, quando si sono alternati alla guida quattro allenatori in quello che per me è stato un anno caotico, il periodo più duro che ho vissuto in nerazzurro". 

I 4 ALLENATORI - In realtà qui il capitano fa un po' di confusione sulla data. L'anno orribile interista a cui si riferisce non è stato il 2000 ma la stagione precedente 1998-1999 quando il club cambiò la bellezza di quattro tecnici: iniziò con Gigi Simoni, silurato decisamente a sorpresa da Massimo Moratti dopo una grande vittoria in Champions con il Real Madrid (3 a 1 doppietta di Baggio entrato nel finale) e una per 2-1 in campionato in rimonta sulla Salernitana-sorpresa dei giovanissimi Marco Di Vaio e David Di Michele (e qui segnò proprio Zanetti al '94). Come informa il documentato sito www.storiainter.com gli subentrò Mircea Lucescu (ma lo spogliatoio non aveva dimenticato Simoni, reduce da uno splendido torneo precedente chiuso al secondo posto tra mille polemiche per il famoso rigore negato da Ceccarini a Ronaldo nel decisivo Juve-Inter del ritorno e dal trionfo in Uefa). Il tecnico rumeno durò poco: il 21 marzo rimediò un 4 a 0 con la Samp e fece anche lui le valigie. Toccò a "Giaguaro" Castellini accomodarsi (si fa per dire) sulla panchina più calda d'Italia. Appena un mesetto e, dopo il ko interno con l'Udinese (1-3) prese il suo posto Roy Hodgson per chiudere il campionato all'ottavo posto. Un disastro perchè i nerazzurri restarono fuori da tutte le competizioni europee riuscendo a perdere anche lo spareggio per un posticino in Uefa contro il Bologna (doppio 2 a 1 in casa e fuori). Un cammino appena più decente, nell'anno dei 4 tecnici, fu quello intrapreso in Champions (eliminati ai quarti dal forte Manchester United) e in Coppa Italia (fuori in semifinale col Parma). Vista come andò, non c'è dubbio che Zanetti si riferisca a questa stagione come quella per lui più caotica e assieme dura. 

ARGENTINI E BRASILIANI - Domanda d'obbligo, come convive il gruppo argentino (Zanetti, Diego Milito, Esteban Cambiasso, Walter Samuel) con quello brasiliano (Julio Cesar, Maicon, Lucio, Thiago Motta, Mancini e l'ultimo arrivato Coutinho)? "Come una grande famiglia dove si vuole continuare a vincere a partire dal Mondiale per club. Tutti qui hanno un ruolo e tutti fanno la loro parte, non importa da quale Paese provengano".

DELUSIONE SELECCION - Javier, bandiera interista, non ha potuto disputare gli ultimi due Mondiali con la sua Argentina (in quello concluso in estate non venne convocato, assieme a Cambiasso, dal ct Diego Armando Maradona). Tema che affronta senza tirarsi indietro: "Ho sentito lo stesso dolore in entrambe le occasioni. Ero più che pronto a rappresentare il mio Paese sia nel 2006 che nel 2010. Ma non è stata una mia decisione non esserci, tutto quello che so è che ho fatto del mio meglio e abbastanza per meritare un posto e questo mi fa stare in pace con me stesso".

E SE MESSI UN GIORNO... - Nelle parole di Zanetti, per ben due volte, ricorre il nome di Lionel Messi. Associato all'Inter..."Ho giocato con tutti i più grandi. E pure con Lionel ma soltanto nell'Argentina, mi piacerebbe però giocare con lui anche nell'Inter un giorno". Chiarissimo. Al punto da citare ancora il giovane fuoriclasse argentino nell'ultima risposta: "Dove mi immagino tra cinque anni? Ancora all'Inter, anche se probabilmente non sarò più in campo accanto a Messi o a chiunque altro. Mi piacerebbe svolgere un ruolo importante qui. Ma tutto quello che posso dire è che voglio restare con la famiglia nerazzurra. L'Italia e questo club sono parte di me". Firmato Javier "Saverio" Zanetti.
 

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SUAREZ, LO SPECIALISTA DI COPPA. E HH DISSE: "Saremo il nuovo Real"
Il regista della Grande Inter racconta i segreti dello spogliatoio nerazzurro. E parla di tutto: la carica di HH, i match con il Madrid, il Benfica, il Liverpool. L'ammissione di essere più interista che fan del Barca ai quali nel 1965 fece un gestaccio durante un'amichevole

Articolo di Giovanni Marino
pubblicato  da Repubblica.it (22 Maggio 2010)

Luisito Suarez, foto tratta da un articolo di Giovanni Marino, pubblicata su Repubblica.it il 22 Maggio 2010Luisito. O Luigi. Che importa? Suarez per tutti, quasi più italiano che spagnolo, leggenda del calcio mondiale e della Grande Inter, un mito con quei lanci millimetrici quasi avesse avuto un mirino montato sugli scarpini; con quella capacità di tenere la palla, stop perfetti, dribbling da far girare la testa; industria umana di assist, valanghe di reti fatte segnare ad altri, qualcuna, bella e importante, siglata anche da lui. Luisito-Luigi ha compiuto 75 anni. Con la maglia nerazzurra ancora addosso: "Sono osservatore internazionale per il club", dice con quel suo particolare accento lombardo-galiziano così musicale e chiaro. Tempo di Champions. "Io di finali ne ho giocate tre e di Coppecampioni ne ho portate a casa due" e Suarez racconta il fascino unico di quei successi. A partire da una sconfitta, ma con un'altra maglia.

DELUSIONE CATALANA - Luis Miramontes Suarez è nato a La Coruna ed è diventato il calciatore più forte del mondo nel Barcellona. Nel 1960 è stato il primo e sinora unico spagnolo a conquistare il Pallone d'Oro (escludendo l'oriundo argentino Alfredo Di Stefano). Nei blaugrana era una mezzala di classe cristallina. E lì raggiunse anche la sua prima finale di Coppacampioni. "Nel 1961, il 30 di maggio, eravamo i favoriti contro il Benfica, in attacco avevamo gente come Kubala, Kocsis, Czibor. Loro, invece, non avevano stelle ma Mario Coluna giocò magnificamente e Santana era tecnicamente valido. Non fecero errori, noi purtroppo sì. Così perdemmo per 3 a 2 a Berna e la delusione fu grande. Ma servì a farmi capire che a quel livello non devi sbagliare, neppure una volta. Una lezione che non avrei dimenticato".

IL SEGRETO DEL PRATER - Anno di grazia 1964, Prater di Vienna, 27 maggio: da una parte la leggenda blanca del Real Madrid, dall'altra l'Inter "diciamo la verità, in quel momento praticamente sconosciuta in campo internazionale". Suarez era stato acquistato da Angelo Moratti "per 25 milioni di pesetas, 250 milioni di lire dell'epoca, un record, ma io ero il Pallone d'Oro e l'Inter una squadra in costruzione. Il Real praticamente vinceva la Coppa ogni anno, 4 o 5 di fila, una dittatura. Roba da non scendere in campo e invece Herrera fu bravissimo, ci disse quelle due o tre cose che fecero la differenza a livello psicologico". Il Mago, prosegue Luisito, affermò come fosse una verità assoluta che "quelli di Madrid sono alla fine di un ciclo, noi all'inizio; loro hanno fatto, noi adesso dobbiamo fare; è il momento giusto, ragazzi noi diventeremo il nuovo Real Madrid". Parole rimaste scolpite nella testa dei calciatori. "Il Mago riuscì a trasmetterci davvero questa convinzione, e dire che dall'altra parte giocavano Alfredo Di Stefano, Puskas, Gento, Amancio. Disputammo un partitone. In particolare Sandrino Mazzola e Tagnin furono la chiave del successo. Il primo, una furia scatenata, segnò una doppietta; Tagnin non fece toccare palla a Di Stefano che sì, aveva ragione il Mago, era in netto calo come tutto il Madrid". Finì 3 a 1 e la "sconosciuta" Inter si affacciò alla ribalta internazionale.

LA BALLA DEL CATENACCIO - Luisito ha voglia di parlare di quel periodo, di raccontare tutto. E, come sostiene convinto, di ristabilire qualche verità "dimenticata in fretta". Cosa, Luis, in particolare? "La balla del catenaccio. Spesso sento dire che eravamo forti solo quando stavamo chiusi in trincea con Picchi, Burgnich e Guarneri a spazzar via. Che falsità. Ma come fa una squadra che schiera Suarez, Mazzola, Corso, Jair, Peirò o Domenghini e un terzino che poi era un'ala come Facchetti a essere considerata difensivista? La verità è che nove volte su dieci i nostri avversari si chiudevano e noi li assaltavamo. Però non eravamo mica scemi e in certe partite, visto che avevamo la capacità e dico anche la classe di arrivare in porta con due, massimo tre passaggi, usavamo una tattica più attendista. Ma giocavamo un bel calcio, altro che. Non si diventa campioni del mondo e d'Europa e non si firma una striscia di successi come quella semplicemente stando chiusi in difesa. E poi mi chiedo: quante squadre, oggi, sanno arrivare al gol con due o tre passaggi?". Un vulcano Luisito, l'energia di un giovane settantacinquenne.

LA RIVINCITA -  San Siro, 1965, un altro 27 maggio: per Suarez è l'ora della rivincita con il Benfica che lo aveva sconfitto a Berna. "Ma a Milano piove da due o tre giorni consecutivi e, sinceramente, non si può giocare a calcio. Forse a pallanuoto, forse... Tuttavia allora non si andava troppo per il sottile e ci fanno andare in campo. E' una battaglia nel fango, con il pallone che si ferma tra le pozzanghere, scivola improvvisamente sulle fasce. Non è calcio, lo ammetto. Tuttavia Jair da Costa indovina un buon tiro e il loro portiere, complice il terreno, non lo trattiene. Uno a zero. Siamo noi il nuovo Real Madrid, aveva ragione il Mago". Doppietta in Coppacampioni. "La tripletta sfumò il 25 maggio 1967 a Lisbona dove fummo sconfitti dal Celtic per 2 a 1: ma io non giocai, avevo uno contrattura e non recuperai in tempo; e fu assente anche Jair, altro infortunato. Non so dire se con noi due in campo sarebbe andata diversamente è un fatto, però, che allora le rose non erano infinite. Non come oggi dove esce Balotelli ed entra Sneijder; si fa male Samuel ed è pronto Cordoba. No, allora eravamo contati".

IL GESTO DELL'OMBRELLO - Un ex giocatore che è stato un campionissimo rimane campionissimo nella testa anche a 75 anni. Difende il suo passato, lo confronta con il presente ed è un giudice severo. Giusto, per chi ha vinto scudetti e coppe in due nazioni differenti giocando un calcio elegante e classico. E per chi ha l'Inter nel cuore: "Nella semifinale con il Barca giocavano le "mie" due squadre, ma alla fine ho sperato passasse l'Inter: i catalani hanno già vinto tanto, i nerazzurri hanno bisogno di cominciare a farlo in campo internazionale". Più nerazzurro che blaugrana Luisito, ricordato ampiamente con una fotogalleria in un sito dei fan del Barcellona - www. blaugrana. com - dove compare una rarità: un Suarez furente che fa il gesto dell'ombrello alla sua ex torcida catalana. Sotto l'immagine la didascalia: "Venticinque agosto 1965, l'Inter bicampione d'Europa gioca un'amichevole con il Barcellona, sugli spalti sono in centomila e non smettono un attimo di prendersela con il suo ex giocatore che alla fine spiega il gesto: "Mi fischiavano senza soste, feci el corte de manga e me ne andai"". Che temperamento.

SORPRESA MATTHAUS - Immagini che Luisito si riveda in qualche calciatore dal tocco felpato, tra Falcao e Platini, per dirne due. Invece lui regala sorprese anche su questo: "Da quando ho smesso a oggi non mi sono ancora rivisto in nessun giocatore ma se proprio devo fare un nome e per giunta interista scelgo Lothar Matthaus". Il tedesco dal gioco potente e muscolare, cosa c'entra con lei? "Sì proprio lui, magari come stile mi somiglierà poco, ma aveva il mio stesso impatto sulle partite, la mia stessa personalità, lo stesso carattere vincente".  

MOU E HH -  "Molti mi chiedono - prosegue Suarez sul filo del discorso del confronto ieri-oggi - se Mourinho è come Helenio Herrera, mah... sono un po' scettico, è troppo presto, io dico: vediamo se vince la Coppacampioni e l'Intercontinentale un paio di volte di seguito, calma con i confronti. Però, sia chiaro, io tifo da matti per l'Inter e spero che Zanetti, Lucio, Maicon, Milito, Pandev e compagni prima o poi diventino come noi. Per farlo, però, hanno un'unica strada: vincere in Europa. Magari cominciando da subito". Firmato, Luis Suarez.
 

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LA VITA MANCINA DI MARIO CORSO. "Io, tra Herrera, Pelè e Berselli"
Inventò le micidiali punizioni a foglia morta. Giocava con i calzettoni abbassati come i sudamericani. E aveva un piede solo: ma magico. Mariolino Corso, asso interista della squadra che vinse tutto si racconta. A partire dal libro che Edmondo Berselli gli ha dedicato
 
Articolo di Giovanni Marino
pubblicato  da Repubblica.it (21 Aprile 2010)

Mario Corso - foto tratta da un articolo di Giovanni Marino, pubblicato su Repubblica.it del 21 Aprile 2010"No, tutto non l'ho letto. Ma i passaggi che mi riguardavano quelli sì, come si dice? Me li sono divorati...". Mariolino Corso non sa dire bugie. La sua schiettezza è d'altri tempi in un'epoca dove la finzione è la regola. Il "sinistro di Dio" degli anni Sessanta parla a pochi giorni dalla scomparsa di Edmondo Berselli, editorialista di "Repubblica", fine intellettuale e scrittore senza barriere che gli dedicò un delizioso libro: "Il più mancino dei tiri", edito da Mondadori. Un volume in cui Corso appare in copertina, impegnato a dribblare il mondo che, nel fotomontaggio, si sostituisce al pallone. "Belle pagine, dove calcio e vita si mischiano, che scrittore e che bella persona, Edmondo", racconta Corso, icona interista di una squadra che conquistò il mondo.

IO E LO SCRITTORE - "Lo conobbi a Chieti, dove ogni anno si assegna un premio alla memoria di Peppino Prisco, il dieci di maggio. La targa va a un presidente e a un giocatore", dice Mariolino con quella voce roca che i fan del calcio neroazzurro '60-''70 certamente rammenteranno. "Berselli e io eravamo nella giuria che doveva assegnare i premi e per alcune edizioni siamo stati assieme a parlare, quando ci vedevamo. Anche giornate intere. Discutevamo di tutto, lui di pallone ne capiva, accidenti se ne capiva. E poi era simpatico e alla mano nonostante fosse un pozzo di cultura, voglio dire: non se la tirava, sai come certi tipi che invece sembra che sanno tutto loro". Però lei non è un gran lettore di libri..."Direi di no in assoluto, ho fatto una eccezione per il libro di Edmondo, per quelle pagine, insomma".

QUEL LIBRO UN ORGOGLIO - "Mi piacerebbe poter dire che era nata una amicizia ma forse non è la parola adatta: amicizia è quando ti frequenti a lungo e hai un rapporto consolidato. Posso dire però che era nata certamente una sintonia, ci trovavamo. E' stato un onore per me conoscerlo, una personalità forte dalle conoscenze vaste. Mi inorgoglisce pensare che Berselli ha dedicato una parte del suo tempo a scrivere un libro su di me. Bellissimo".

TERRORE E VITTORIA - Inevitabile parlare di Grande Inter con un tipo da 502 gare, 94 reti (tra i primi 10 di ogni tempo per presenze nerazzurre, come informa "l'enciclopedia" informatica dei dadti interisti, il sito www.storiainter.com), 2 Coppecampioni, 2 Intercontinentali. A partire dal primo trionfo, contro la squadra, allora, ritenuta più forte al mondo, il Real Madrid. Come pensavate di potercela fare con gente come Puskas, Gento, Alfredo Di Stefano, detto "La saeta rubia", il fulmine biondo? "Terrorizzati. Ha presente la fifa nera? Noi eravamo terrorizzati al solo pensiero di doverli incontrare. Ma Helenio Herrera era bravo a motivarci, a dare la carica, era quello che sapeva fare meglio. In campo, poi, si rovesciò tutto. Anche perché, devo ammetterlo, scoprimmo che fisicamente eravamo molto più freschi e reattivi noi. Che, insomma, li avevamo presi alla fine di un ciclo, per carità, glorioso ciclo in quel 1964. Il fattore fisico fu determinante". Chi la marcava? "E chi se lo ricorda? Di quelle sfide lì ti rimangono in testa solo i volti dei grandi giocatori e io ricordo la rabbia impotente di Gento, la delusione di Puskas, la grinta di Di Stefano che non si arrese fino al fischio finale. Però tutti noi giocammo una gran partita e sì, anche io".  E iniziò una bella serie di vittorie. "Già, con il Mago che ogni anno cercava di vendermi a un'altra squadra, cosa impossibile perché Moratti mi adorava e non lo avrebbe mai permesso. Ma lui ci provava e me lo diceva pure: "Mario, per me dovevi andare via ma visto che sei rimasto ora giochi". Hai capito il personaggio che bella faccia tosta?".

PELE' IL MIO CAMPIONE - Quanti ne ha incontrati, Mariolino. "Tanti ma se devo fare una classifica dubbi non ne ho: Pelè è stato il più grande giocatore di tutti i tempi. Inimitabile. Fortissimo di piede e di testa. Classe e fisico. Corsa e resitenza. Sostanza e fantasia. Che roba, ragazzi. A quei tempi capitava di incontrarlo in amichevole perché Inter e Santos erano il massimo e in tanti pagavano il biglietto per vederle. Lo incrociai anche con la Nazionale. Pelè aveva molta simpatia per me, avevamo un buon rapporto, era simpatico, sempre sorridente. Della mia epoca, il più grande calciatore con cui mi sia confrontato. E non credete a chi dice che avrebbe fatto male in Europa: uno così fa bene ovunque".

CALZETTONI ALLA SUDAMERICANA - Pelè, completo. Mario tutto e solo sinistro. "Meglio un piede solo che due scarsi, è il mio motto", sorride Mariolino che, come altri ex nerazzurri, fa l'osservatore per la società di Massimo Moratti. Ma perché quei calzettoni sempre arrotolati? "Era un omaggio. Al mio idolo: Omar Sivori, lo adoravo. Lui giocava alla sudamericana e con i calzettoni giù, lo imitai subito. In qualche modo fui il primo europeo a metterli in quel modo. Mi dissi: se non posso fare tutti quei tunnel e quei dribbling almeno posso assomigliargli nel look", racconta con uno spiccato senso di autoironia il sudamericano di San Michele Extra. Rimasto ancora in stretto contatto con alcuni compagni dell'epoca come Boninsegna, Bedin, Domenghini e Suarez. "E vorrei sfatare una favola: con Sandrino Mazzola il rapporto era ottimo, le polemiche erano solo invenzioni". Nomi che richiamano successi nazionali e mondiali. E i due gol a cui Mario il mancino tiene di più. "Il primo lo misi a segno nello spareggio di Madrid contro l'Independiente, finalissima dell'Intercontinentale. Non che sia stato particolarmente bello, ma era semplicemente decisivo. Ricordo il cross di Peirò, io che stoppo di petto e calcio. Campioni del Mondo nel secondo tempo supplementare. Era il 1964, anno meraviglioso". Il secondo richiama l'anno doro di Bonimba, il 1971: "Quella punizione che mandò al tappeto il Milan nel derby di ritorno, fu 2 a 0 per noi e vincemmo l'undicesimo scudetto dopo una rincorsa clamorosa: recuperammo 7 lunghezze quando per una vittoria ti davano 2 punti, non so se mi spiego".

IL SEGRETO DELLA FOGLIA MORTA - Corso è stato l'antesignano di quei giocatori micidiali sui calci di punizione. Su tiro franco era un pericolo per gli avversari. Partiva dal suo sinistro una traiettoria a volte alta, a volte bassa, ma sempre tagliente e letale che si afflosciava in rete lasciando immobili i portieri. "Tutta colpa del mio primo allenatore, Nereo Marini da San Michele Extra, il paese dove sono nato. Si fissò sulle mie qualità di tiratore da fermo e mi costrinse, giovanissimo, a esercitarmi quotidianamente per 40 minuti alla fine di ogni allenamento. Tiri su tiri. Così nacque la foglia morta". E il mito calcistico di Mariolino calzettoni abbassati, solo sinistro, punizioni che equivalevano a rigori, sempre sul mercato e poi sempre titolare, vincitore su ogni campo. "Una bella carriera, ne sono fiero. Qualche rammarico per la Nazionale, ma ampiamente compensato da ciò che ho fatto nell'Inter. Al punto da finire in un libro di Berselli. Chi lo avrebbe mai detto: io, calciatore di San Michele Extra, con un piede solo".
 

  

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IO IL BARCELLONA L'HO BATTUTO. AGLI SPAGNOLI SI FA GOL COSI'

Tre gol in tre partite. Compresa una sospesa. Una rete fondamentale al Nou Camp.
E' il record di Roberto Boninsegna, gloria nerazzurra e unico interista ad aver segnato e battuto il Barcellona.

Articolo di Giovanni Marino
pubblicato  da Repubblica.it (16 Aprile 2010)

Roberto Boninsegna - foto tratta da un articolo di Giovanni Marino, pubblicata su Repubblica.it del 16 Aprile 2010"Fu tosta, ma vincemmo contro gli spagnoli. Ed è una delle soddisfazioni che ancora oggi porto con me". L'unico nerazzurro ad aver battuto il Barcellona segnando sia all'andata che al ritorno (e nel mezzo, addirittura in una terza gara sospesa per nebbia, quindi una tripletta di fatto), ha sempre avuto un destino nel nome: Roberto Boninsegna. Il terzo capocannoniere assoluto nella storia centenaria interista riuscì nell'impresa nel suo primo anno con l'Inter. Correva il 1970 e Bonimba, come ancora oggi lo chiamano i suoi inossidabili fans, era appena approdato alla corte del presidente Fraizzoli. "Fu un grande momento, il Barca è, da sempre, una delle migliori formazioni del mondo", dice senza fronzoli, quasi brusco, com'è nel carattere di questo ex centravanti che nella vita e nella carriera si è sempre fatto rispettare andando avanti da solo, a suon di portieri battuti e stopper beffati. Senza raccomandazioni, sponsor e con poca diplomazia, ma con tanta, tanta sostanza in campo. Lui, nato nell'Inter, innamorato dell'Inter, tornava a casa. (Ri)acquistato dal Cagliari di Gigi Riva e non per due soldi. Ai rossoblu andarono tre calciatori del calibro di Domenghini, Gori e Poli. E in quel '70 lo scambio sembrò dare ragione ai sardi che vinsero il primo, unico, clamoroso scudetto proprio davanti ai lombardi. Ma i sette anni di Boninsegna milanese avrebbero poi riequilibrato quel giudizio: con il numero nove al centro dell'attacco, la squadra di Gianni Invernizzi vinse in eclatante rimonta il tricolore dell'anno seguente; quindi raggiunse l'ultima finalissima di Coppacampioni arrendendosi solo all'Ajax del divo Cruijff e il bomber conquistò per due volte il titolo assoluto di capocannoniere (in anni in cui c'era da giocarsela con attaccanti fenomenali, qualche nome: Gigi Riva, Paolino Pulici, Giorgio Chinaglia, Pietro Anastasi, Luciano Chiarugi, Pierino Prati) . "Diciamo che lo scambio andò bene sia all'Inter che al Cagliari, alla fine", taglia corto Roberto, quasi dovesse liberarsi con una gomitata di un difensore assillante sotto veste di una domanda non proprio gradita.

FRANCO, LE RAMBLAS E LA FESTA - Ma andiamo a quella sfida in Coppa delle Fiere. "Non si può dimenticare, ma i dettagli beh, è roba di quaranta anni fa, non chiedetemi di rammentare tutti i particolari", gioca d'anticipo il goleador che unisce diverse generazioni di tifosi (anche grazie ai filmati di YouTube che lo mostrano ancora oggi ai più giovani nelle sue acrobazie in area di rigore). Le cronache dicono che il 14 gennaio 1970 si giocavano gli ottavi di finale della prestigiosa Coppa delle Fiere - oggi assimilabile all'Uefa League - e che l'Inter era attesa a Barcellona nel celebre Nou Camp. Si va in campo in una Spagna ancora dominata dal franchismo ma dove Francisco Franco, appena un anno prima, aveva nominato il suo erede in Juan Carlos I di Borbone (che alla sua morte, nel 1975, sarebbe stato incoronato re). L'Inter gioca dunque in uno dei tempi del grande calcio. E qui Bonimba ti sorprende per la nitidezza di certi ricordi: "Quello stadio era da brividi. Mamma mia, ti perdevi a girarlo tutto. Ce lo fecero visitare perché era un gioiello, c'era persino una piccola chiesa, lì dentro. E poi gli spalti, l'accuratezza degli spogliatoi, il lungo sottopassaggio, insomma, tutto ti intimoriva già prima di calcare il prato". Intimoriti, voi? "No, no, che c'entra, dicevo in generale perché noi personalmente non eravamo tipi da disorientarci troppo, tanto che una volta in campo prima io e poi Mario Bertini andammo in gol". Già, difficile immaginare grossi imbarazzi in una formazione che nel match iberico schierava Vieri, Burgnich, Facchetti, Bellugi, Landini, Cella, Suarez, Mazzola, Boninsegna, Bertini, Corso. C'era ancora un bel po' di Grande Inter, insomma. "La buttai dentro quasi subito - continua Bonimba - poi loro ci ripresero e Mario (Bertini, ndr), ci riportò in vantaggio. Credo tutto nel primo tempo. Nella ripresa fu un assedio ma la nostra difesa difficilmente prendeva due gol in una stessa partita...". Quasi perfetta la sua ricostruzione: gol di Bobo al settimo, pari della mezzala Fustè al ventesimo e nuovo soprasso nerazzurro al trentaduesimo. Inutile predominio blaugrana nel secondo tempo e qualificazione che prende la strada di Milano. "C'erano parecchi nostri tifosi e fecero una festa incredibile per le ramblas, ma io sapevo che sarebbe stata ancora dura. Se c'era ancora il franchismo? Sinceramente rammento solo che quella sera la Spagna mi sembrò bellissima". Succede quando si vince su un campo che ha fatto la storia del football.

LA PARTITA SPARITA E I GOL SOTTRATTI - Poi Bonimba ha un lampo: "Aspetta un attimo: ma se non ricordo male giocammo tre volte contro il Barca". Tre volte? "Sicuro, una fu sospesa per nebbia ma eravamo in vantaggio e indovinate di chi era il gol? Mio...". Un precedente sparito da tutti gli almanacchi. Ma Bobo ha ragione, come testimonia il più completo (e incredibile) archivio informatico sulla storia dell'Inter che si deve a un ragioniere, Tommaso De Lorenzis, ideatore di www. storiainter. com, un diluvio di dati, formazioni, notizie, immagini, match ufficiali e amichevoli, imperdibile per un interista. La partita rinviata si disputò il 28 gennaio 1970 e Bonimba al quindicesimo siglò il vantaggio lombardo. Inutile perché, implacabile, la nebbia al trentatreesimo mise fine alla contesa. "Gol non conteggiati perché c'era la nebbia o la neve, gol non conteggiati perché c'era stato il 2 a 0 a tavolino per intemperanze del pubblico, gol non conteggiati per ininfluenti deviazioni che li trasformavano in autoreti: sinceramente me ne sono state sottratte molte di segnature e con i regolamenti odierni, dove ti attribuiscono la rete basta che il tiro è partito da te, i numeri dei miei gol sarebbero molto, molto più grandi", si lamenta Boninsegna. Aggiunge: "Persi il mio terzo titolo assoluto di capocannoniere per un autogol che non lo era...". Difficile dargli torto.

QUELL'ALA DI CLASSE - Si decide tutto il 4 febbraio. L'Inter, rispetto all'andata, recupera Jair (che nel corso della gara sarà sotituito da Reif, mentre Suarez lascerà spazio a Corso). "Non fu semplice, il Barcellona ha nel suo Dna il non arrendersi mai e poi c'era un'ala col nome strano (Rexach, una delle colonne del team, attaccante tecnico ma anche di temperamento che giocherà di lì a qualche anno con Cruijff e Neeskens in un Barca stellare) che ci fece ammattire. Feci ancora gol all'inizio (18') ma l'ala spagnola pareggiò subito (29') e la gara restò in equilibrio fino al termine. A noi stava bene il pareggio: e passammo il turno". La corsa dell'Inter di Heriberto Herrera si fermò in semifinale con l'Anderlecht ma quel risultato resta tra le vittorie di prestigio nerazzurre. "E mi ha insegnato una cosa: quando incontri squadre così grandi, hai una sola possibilità per superarle: attaccarle. Non sono abituati a subire. In quei tre match, in certe fasi, noi ci comportammo così. Se invece indietreggi fai una frittata". E Bobo, sangue nerazzurro nelle vene, indica la strada ai suoi eredi: Milito, Balotelli, Etoo, Sneijder. "Ragazzi fortissimi, capaci di ogni cosa. E più fortunati di noi a quei tempi": Perché, Bonimba? "Perché nell'unica Coppacampioni interista che disputai arrivammo fino in fondo, era il 1972, ma la finale era fissata in Olanda, praticamente in casa dell'Ajax. Invece adesso se si arriva all'atto finale si giocherà a Madrid e senza squadre spagnole. E, mi creda, non è poco...".

 

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VI RACCONTO L'ULTIMA FINALE DELL'INTER. LA COPPA VALEVA 10 MILIONI DI LIRE

Era il 1972 e  Giubertoni costituiva con Burgnich, Bellugi e Facchetti la Maginot dell'ultima Grande Inter capace di arrivare in finale di Coppa Campioni. L'ex stopper svela come quella squadra giunse a un passo dal trofeo

Articolo di Giovanni Marino
pubblicato  da Repubblica.it (31 Marzo 2010)

Mario Giubertoni - foto tratta da un articolo di Giovanni Marino, pubblicata su Repubblica.it del 31 Marzo 2010 "Le confesso un segreto: davvero questa non l'ho mai raccontata. Ha presente quella battaglia di Glasgow contro il Celitc in semifinale? Mamma mia, noi in trincea e loro che arrivavano da tutte le parti. Con Tarcisio, Giacinto, Mauro e Lele, lo posso dire, alzammo un muro là dietro in difesa. Zero a zero come all'andata. In ballo c'era la finale. Finì ai rigori e il sesto rigorista dell'Inter ero io. Così aveva deciso Gianni Invernizzi. Ma vincemmo 5 a 4: fortuna che gli scozzesi sbagliarono e Jair no, perché nella mia vita non ho mai calciato un rigore e non so proprio come avrei fatto. Mise tutto a posto il nostro brasiliano, che giocatore". Retroscena e ricordi dall'ultima grande campagna interista in Coppacampioni: stagione 1971-72, quando i nerazzurri raggiunsero la finale."Quel torneo è il massimo per uno che di mestiere fa il calciatore, credetemi", spiega con fresco entusiasmo Mario Giubertoni che di quella squadra (Mazzola, Boninsegna, Corso, Burgnich, Facchetti, Oriali per fare qualche nome) era un gregario, sì, ma davvero prezioso. "I piedi non erano dolci, ma di correre correvo, marcavo a uomo, avevo scatto e gran fisico e soprattutto lasciavo ogni energia sul campo: sarà per questo che ho sempre giocato", si descrive così il "Giube", 1 scudetto, 1 finale di Coppa dei Campioni, 154 gare e 1 rete nei 7 campionati nerazzurri, 21 presenze nelle rassegne europee, 39 e 1 rete in Coppa Italia. Quasi non fossero trascorsi 38 anni da allora, Mario rivive quell'esperienza rammentando dettagli e svelando aneddoti di una squadra e di un calcio ancora carichi di suggestioni. "Io le giocai tutte tranne una, ecco come arrivammo fin là. Che so? Magari porta bene agli interisti di oggi", sorride dalla sua casa nel modenese, tradendo ancora un forte attaccamento per quei colori, e per quelli rosanero del Palermo, le due formazioni in cui si è affermato come un difensore arcigno e difficilmente superabile nei suoi anni migliori.
 
MAZZOLA, BONIMBA E LA REGIA DI INVERNIZZI - "Dunque la prima fu con l'Aek Atene, esordio a San Siro. Io stavo addosso a un peperino, un piccoletto micidiale, nome da scioglilingua. Passammo in svantaggio, poi Mazzola, Facchetti, Jair e Bonimba misero una ipoteca sul passaggio del turno. Ma Atene, al ritorno, chi se la dimentica? Il pubblico si faceva sentire, l'arbitro ne era condizionato e i nostri avversari sembravano come sospinti dai tifosi. Perdemmo 3 a 2 e passammo il turno. Negli spogliatoi guardai in faccia i compagni: capii che saremmo andati lontano". Ma come era quello spogliatoio, quegli ultimi sprazzi da Grande Inter, chi comandava e cosa faceva l'allenatore per farsi sentire? "Allora, per capirci, quando hai in squadra gente tipo Corso, Facchetti, Mazzola, Jair, Boninsegna, Burgnich, Bedin, Bertini, Frustalupi, l'allenatore serve solo a mantenere il giusto equilibrio e l'armonia più fuori che dentro al prato verde. Perché lì, questa gente, ne sa più di qualsiasi allenatore e va in automatico. Tu ai Mazzola, ai Facchetti,  ai  Boninsegna e ai Corso cosa potevi mai insegnare? Ecco, Invernizzi era bravo a gestire gli equilibri e ottenne in due anni fantastici risultati: lo scudetto della rimonta sul Milan (eravamo a meno sette) e la finale di Coppacampioni l'anno successivo. Quanto mi manca Gianni".  
 
CHE BOTTE CON HEYNCKES - Arriva lo scontro, passato alla storia del pallone, contro il Borussia di Netzer. Ci vogliono tre partite per capire chi passa. "Ma la prima non conta - ci tiene a precisare il "Giube"- quel sette a uno è falso come Giuda. Bonimba prese una lattina in testa quando eravamo sul 2 a 1 per loro e per noi era finita lì. Eravamo certi del 2 a 0 a tavolino e giocammo come fosse un allenamento, senza impegno. Quel 7 a 1 è una favola tanto è vero che poi a Milano gliene rifilammo 4 (a 2) con Mauro Bellugi che fece un gol da cineteca che non avrebbe mai più fatto e poi ancora Bonimba, Jair e Ghio. Certo, il ritorno a Berlino fu un assedio: ma Ivano Bordon fu letteralmente miracoloso, parò pure un rigore a Sieloff e io, in quell'assalto durato novanta minuti, la palla l'avrò presa sì e no due volte". Due volte e basta? "Sì, perché marcavo il grande Jupp Heynckes ed entrambi trascorremmo quella serata a fare a botte: spintoni, calcioni, gomitate, sgambettii. Un corpo a corpo. Alla fine uscii dal terreno come un pugile, ammaccato e tumefatto, ma vincente". E non espulso..."Ma io ero fisico, mai violento. Nella mia carriera mi hanno buttato fuori solo una volta. Giocavo nel Palermo e marcavo quel dribblomane talentuoso di Claudio Sala. Un tipo che mi piaceva perché le prendeva e le restituiva, ma non stava lì a piangere. L'arbitro ci richiamò e noi niente, continuammo a pestarci. Alla fine ci cacciò entrambi e con ragione".

SOFFERENZA LIEGI - "Nei quarti, dopo aver superato il Borussia, ci sentivamo sicuri di poter fare fuori facilmente lo Standard Liegi. Che errore: a San Siro faticammo da matti per vincere uno a zero con gol di Jair. Loro avevano un portierone: Piot, che era anche quello della nazionale. E a Liegi rischiammo l'eliminazione. Andammo sotto e quando si faceva nera una splendida azione di Pellizzaro a dieci minuti dalla fine mandò Mazzola in gol. Era fatta. Il 2 a 1 finale non contava nulla. Ci aspettava il Celtic Glasgow".

FINALE DI RIGORE - "Non giocai l'andata per infortunio. Nel ritorno marcai il loro centravanti: un gran giocatore. Loro davanti avevano calciatori come Dalghish, Macari e Johnstone, abili e potenti. Un giovanissimo Lele Oriali fece un partitone proprio contro Johnstone. Fu durissima. E, come ho detto, prevalemmo ai rigori: Mazzola, Facchetti, Frustalupi, Pellizzaro e Jair furono implacabli. Per loro sbagliò Deans e tanto bastò. Mi sentii uno dei più forti d'Europa perché ero in finale nella Coppa dei Campioni".

CRUIJFF, IL MIGLIORE - "Che sfortuna: la finale si giocava a Rotterdam, praticamente in casa dell'Ajax. Ci credevamo lo stesso: Invernizzi mi disse di marcare Muhren, il loro centravanti arretrato e siccome indietreggiava mi consigliò di spingermi anche in avanti. Lo feci, ma al dodicesimo del primo tempo durante un mio spunto offensivo Blankenburg mi sfasciò la caviglia con una entrata-killer. Fui costretto a uscire, sostituito da Bertini. Guardai il resto del match dalla panchina e vidi uno spettacolo, per allora, assolutamente inedito: il calcio totale all'olandese. Cruijff per me era e forse resta il migliore calciatore del mondo: aveva tutto, era un leader, col suo scatto lasciava chiunque dieci metri dietro, tirava, passava, colpiva di testa, scartava, lanciava. E poi Haan, Suurbier, Neeskens, Krol, Keizer. Cedemmo nella ripresa: due volte Cruijff. La prima per una incomprensione tra Oriali e Bordon, giovanissimi ma già bravissimi. Può succedere. Il mio sogno finì lì".

UN PREMIO DA 10 MILIONI DI LIRE - Davvero altri tempi il calcio anni Settanta: "Avessimo vinto il premio sarebbe stato di dieci milioni di vecchie lire se non ricordo male", sorride Giubertoni che dopo il calcio ha fatto "prima l'artigiano in una azienda di maglieria e poi il coltivatore di pere in una campagna di mia proprietà": Adesso, a 65 anni, è in pensione e si gode la tranquillità: "Sono in pace con me stesso, avrei anche il patentino da allenatore ma non fa per me. Si vive, e bene, anche senza calcio. Ma chi la dimentica quella Coppacampioni: ho ancora le maglie di Aek, Borussia, Standard, Liegi, Celtic e Ajax che ci scambiavamo a fine match. E poi, scusi, quando sono uscito, a Rotterdam, eravamo ancora imbattuti e come mi diceva il presidente Fraizzoli, "Caro Giube, ci fossi stato tu in campo non avremmo mai perso". Mentiva, una affettuosa e simpatica bugia che però mi inorgoglisce ancora oggi e mi riporta a quella splendida avventura sportiva".    

 

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LE CONFESSIONI DI BONIMBA: "Quando segnai di pugno"
Boninsegna svela i retroscena di una carriera da goleador.
A partire da una delle prime reti realizzate con la mano. In un Inter-Lazio di 36 anni fa
di Giovanni Marino
pubblicato  da Repubblica.it (24 novembre 2009)

Roberto BoninsegnaRoberto Boninsegna ha compiuto 66 anni. In nerazzurro. "Faccio l'osservatore per l'Inter", dice con orgoglio e competenza. Perché Bonimba, indimenticabile goleador degli Anni Settanta, si è sempre sentito interista nell'animo. "Che dispiacere quando Fraizzoli mi cedette alla Juventus". E che dispiacere diede ai Bauscia quando rifilò due gol alla sua Inter in maglia bianconera: "Non fu una vera esultanza, la mia, ma solo una reazione di pura rabbia, caspita: io volevo stare dall'altra parte...". Roberto apre il libro dei ricordi e dei segreti nerazzurri. A partire da un caso tornato di prepotente attualità: il colpo di mano. Quella giocata "sporca" che ha mandato la Francia di Henry ai Mondiali a scapito dell'Irlanda di Trapattoni.

LA RABBIA DI FELICE PULICI - "Accadde anche a me di segnare con la mano. La sinistra, ovviamente", dice il mancino naturale tuttora al terzo posto tra i cannonieri di sempre dell'Inter. E racconta, con una straordinaria capacità di ricordare i dettagli: "C'è il sole ma fa freddo quella domenica di gennaio del 1973, a San Siro. Tanta gente sugli spalti. La Lazio di Maestrelli è la squadra rivelazione e si sta avvicinando a quel titolo che avrebbe colto l'anno successivo. Il match si mette subito male e Giorgione Chinaglia manda i biancocelesti in vantaggio su un giusto rigore. Noi stentiamo da matti. Ma nella ripresa ci gettiamo all'attacco un po' tutti. A un certo punto mi arriva un cross. Basso e veloce. Credo di Lele Oriali. Mi getto a corpo morto, sento la palla sfiorare i capelli e contemporaneamente, d'istinto, allungo il pugno sinistro. Che spinge la palla in rete. Praticamente un cazzotto. Pulici, il portiere, è incredulo. Per un attimo, poi si arrabbia".

L'URLO DI MASSA - Gol, uno a uno. Il pubblico esplode. "Io no, non esulto perché mi aspetto che l'arbitro annulli. Ma poi, alle mie spalle spunta Peppiniello Massa, la nostra ala destra, piccolino ma tecnico e poi simpaticissimo, praticamente uno scugnizzo napoletano e mi dice: "E' gol, è gol, dai abbracciami, abbracciami, forza Bobo muoviti, è il pareggio". E io lo faccio mentre Felice Pulici, giustamente impazzisce perché è l'unico avversario che ha visto davvero bene come è andata. L'unico testimone oculare al cento per cento". E l'arbitro, e il guardalinee? "Li assolvo perché, per come andò l'azione, era impossibile capire: la testa, i capelli, coprivano il pugno e allora, a parte una moviola dove si vedeva poco e male, non c'era altro mezzo tecnologico. Pulici e Massa sì che avevano visto, e forse, ma non benissimo, qualcosa aveva intuito anche Pino Wilson, il libero laziale". Soltanto la domenica sera e poi il lunedì con maggiore chiarezza venne fuori il "misfatto". "Già, ma quando nel dopo partita i giornalisti mi chiesero non negai: "Sì, l'ho toccata", risposi. Ho sempre cercato di agire nelle regole io e se chiedete a compagni e avversari dell'epoca vi diranno che cadevo in area solo se venivo letteralmente abbattuto, altrimenti restavo in piedi fino all'ultimo".

STAVOLTA TI FREGO IO - Bonimba le ha date e la ha prese dai difensori avversari. Ma tutti lo hanno sempre considerato un giocatore leale. In quel caso che successe? "Ragionai così: se l'arbitro me lo chiede ammetto che è un gol di mano. Altrimenti penso a quanti me ne hanno tolti ingiustamente i direttori di gara, a quanti rigori non mi hanno concesso e non dico nulla. Perché è questo che scatta nella testa dell'attaccante: una piccola rivincita con l'arbitro e i guardalinee rispetto ai torti subiti in precedenza (questo, assieme al fatto che sai benissimo che il risultato del match è sempre determinante per la tua squadra). Della serie: dai che stavolta vi ho fregati io... E poi, non per scusarmi, se non avessi avuto quel diavolo di un Massa vicino forse mi sarei fermato a braccia in giù e l'arbitro avrebbe capito. E comunque non era la gara decisiva per andare alla Coppa del Mondo e non era evidente nè come quello annullato in Nazionale a Pazzini nè come il colpo di Henry": Brutta quella cosa con la Francia, vero? "Tremenda per gli irlandesi, ma lì arbitro e guardalinee cosa facevano, dormivano? Purtroppo non si può fare più nulla. Il calcio ha le sue, magari discutibili regole, e non si può ripetere la partita. Non è mai accaduto e non accadrà".

A LEZIONE DA MEAZZA - Sessantasei anni, Bonimba, saluta la ricorrenza scorrendo i retroscena dei momenti particolari della sua carriera. "Beh, vedo come fosse oggi quando tornai all'Inter dopo gli anni di Cagliari. Che gioia pazzesca. Io avevo fatto tutta la trafila nelle giovanili. Poi il Mago, Helenio Herrara, mi mandò via, che sofferenza per me che ho sangue nero e azzurro nelle vene. Rientrare a casa, in quel 1970, fu il massimo. Vincere lo scudetto nel '71 e arrivare in finale di Coppacampioni l'anno dopo contro l'Ajax di Johan Cruijff, due imprese che porto nel cuore. Ma torniamo all'inizio di tutto: quando ero ragazzino ebbi la fortuna di essere allenato da un signore chiamato Giuseppe Meazza. Un monumento del calcio italiano. Mi incuteva timore: lo vedevo enorme, così serio, lo sguardo gelido. Invece era una pasta d'uomo e un profondo conoscitore di calcio. Che mi insegnò molto e mi cambiò la vita trasformandomi in bomber. Originariamente giocavo all'alla sinistra e mi piaceva servire assist ai compagni, mandarli in rete. Presto, però, capii che c'era poca gloria per chi non entrava nel tabellino dei marcatori e presi a calciare con maggiore frequenza in porta. Peppino Meazza comprese che ci prendevo abbastanza e mi spostò al centro dell'attacco. Da dove non mi sarei più mosso".

IL SEGRETO DEI RIGORI - "Fece di più Meazza - rammenta Boninsegna - mi rivelò un piccolo grande segreto del calcio: come si tirano i rigori. Una cosa che mi sono portato a lungo con me nell'Inter dove, ad un certo punto, ne segnai davvero molti, uno di seguito all'altro. La magia si infranse un pomeriggio a Firenze quando il portiere viola Superchi distendendosi sulla sua destra, deviò il mio penalty in angolo. Cosa mi disse il Maestro Meazza? Un dettaglio che risultò decisivo: "Roberto, non prendere mai la rincorsa centralmente, non lo fare mai. Scegli sempre una via laterale: o la destra o la sinistra. Il portiere non capirà". Aveva ragione, ovviamente".

IL GOL PIU' BELLO DI TUTTI - Ne ha fatto tanti in nerazzurro: "Centosettantuno gol, ma bisognerebbe aggiungerci 5 reti che mi hanno ingiustamente sottratto perché ci assegnarono delle vittorie a tavolino. Ricordo a Roma, con i giallorossi vincemmo 2 a 1, doppietta mia e invasione di campo dopo il rigore messo a segno al novantesimo. Conseguenza, 0 a 2 a tavolino e niente reti per me", dice con ancora chiaro rammarico. Il più bello? Nessun dubbio, la fantastica rovesciata di Inter-Foggia 5 a 0 (video), il match che sancì la matematica conquista dell'undicesimo scudetto interista, stagione '70-'71. "Colpi così ne vengono fuori uno, massimo due in una intera carriera. Quando vidi Giacinto Facchetti crossare compresi che non potevo fare altro che tentare di avvitarmi all'indietro e calciare mentre il pallone era alto, per aria. C'era il rischio di ciccarla, quella palla, o di spedirla fuori da San Siro. Venne fuori una esecuzione magnifica. Pensate, il portiere del Foggia, Raffaele Trentini, ancora oggi mi ringrazia con grande ironia: "Sai Bobo, l'hanno trasmessa così tante volte quella rovesciata che sono diventato famoso anche io". Ma ribadisco sono di quei colpi non puoi neppure pensare di ripetere un'altra volta nella tua vita sportiva. Di reti spettacolari ne ho segnate altre, come quando rischiai di spaccarmi la testa in un Inter-Napoli, ma quella al Foggia è una perla unica".

LA LATTINA E LA RIVINCITA - Ultimo flashback, inevitabile, i due matches col Borussia di Netzer. A 66 anni compiuti, Bonimba, giuri che la lattina di quel tifoso tedesco la mandò ko? "Svenni. Persi totalmente i sensi. Per qualche minuto. Fu una botta forte alla testa. Nessuna scena. Quando rinvenni avevo davanti il volto preoccupato del massaggiatore Della Casa. Tra il primo e il secondo tempo, negli spogliatoi, scese il commissario Uefa, che mi toccò la fronte preoccupato. Il nostro medico, Quarenghi, mi disse che non potevo tornare in campo. Quel 7 a 1 è un falso storico, uscii io e poi si fece male Jair Da Costa, eravamo in 10 e per di più, mi disse Sandrino Mazzola, l'arbitro dopo la lattina aveva fatto dei segni inequivocabili, come a dire: giocate pure, tanto il risultato del campo non sarà questo. E infatti, nel replay a campi invertiti, vincemmo 4 a 2 alla grande. Io segnai la seconda rete. Ci fu un cross che passò tra Jair e un paio di tedeschi, arrivai di corsa e la buttai dentro col sinistro". Immagini degli anni felici di Bonimba nerazzurro. Che conclude alla sua maniera: "L'ho detto: non ho mai fatto scena. E ora che ci ripenso mi spiace per quel gol di pugno e per Felice Pulici, che era un gran portiere. Ma fu un riflesso. E non mi accadde mai più".


 

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INTERVISTE SENTIMENTALI / PARLA MASSIMO MORATTI

di Stefania Rossini


Il mio successo? Lo devo a un Angelo
La consacrazione è avvenuta a cinquant'anni. Ma prima il presidente dell'Inter non ha perso tempo. Imparando la lezione del padre: tutto, sulla terra, è in prestito. Anche il potere. Così ora apre ai no global.

Massimo Moratti, Presidente dell'InterQuesta è un'intervista sotto il segno del padre. Parlare con Massimo Moratti, presidente dell'Inter, industriale del petrolio e figura di spicco della Milano dei nostri anni, significa infatti parlare quasi esclusivamente con un figlio. Non c'è momento di questa conversazione, non c'è episodio o ricordo o considerazione che non porti l'impronta di quel personaggio dominante e, a suo modo, straordinario che fu Angelo Moratti.
Massimo Moratti ha risolto il problema in un culto delicato di quello che, a 57 anni, non smette di chiamare "papà". Come quando era bambino e il padre lo portò a vedere quella fatidica partita (Inter-Milan: 6 a 5) che segnò il destino calcistico di una squadra e di una famiglia. È un culto dichiarato senza spavalderie o timidezze. È il filo conduttore di un'esistenza che si corona nell'estate del 1995, quando Massimo riporta, non senza difficoltà, a casa Moratti la squadra che Angelo aveva reso mitica.

Lei nasce così alla vita pubblica a cinquant'anni. Come per Gianni Agnelli, come per Luchino Visconti, sembra che anche per lei i decenni precedenti siano stati una lunga preparazione a un esordio clamoroso. Dov'era prima di diventare presidente dell'Inter?

«Sono paragoni lusinghieri, ma in quei decenni io semplicemente lavoravo. Facevo lo stesso lavoro di oggi: l'imprenditore. Nel passato, la nostra famiglia era sempre stata molto esposta. Forse per questo sia io che mio fratello Gianmarco non abbiamo mai sentito l'esigenza di apparire, ma solo il dovere di lavorare. Era peraltro un dovere internazionale, perché dovevamo girare il mondo per far funzionare i nostri impianti. C'è poi il fatto che anche in politica non avevamo mai preso posizioni pubbliche».

Insomma, ricchezza e discrezione. Per molto tempo è stata questa la caratteristica della seconda generazione Moratti.

«È così. Ambedue le cose ci vengono da papà che ci ha permesso di godere della ricchezza, ma che ci ha anche insegnato a sentire l'esistenza come un dovere verso noi stessi e verso gli altri. Ci diceva: "Ricordatevi che tutto nella vita è in prestito"».

Ma a un certo punto è arrivata la politica ed è tornato il calcio.

«Nel 1994 mia cognata Letizia ha accettato la presidenza della Rai e un anno dopo io ho comprato l'Inter. Tutto è cambiato».

In peggio?

«Non direi. L'inter è un grande amore e una grande sofferenza. Anche la decisione di acquistarla è stata molto sofferta. Tanto è vero che in famiglia mi sono trovato con nessuno, proprio nessuno, che fosse d'accordo. L'ho acquistata lo stesso. Perché la ricchezza serve anche a questo: a comprare una passione».

Come mai intorno all'Inter c'è sempre quest'aura di eroica sofferenza, anche quando va tutto bene?

«È vero, è un po' la nostra caratteristica. Il nuovo inno, che uscirà fra pochi giorni, scritto da Elio (quello delle Storie tese) dice "Ma dimmi cosa c'è di meglio / di una continua sofferenza / per arrivare alla vittoria". Questo pathos ci ha sempre accompagnato, fin dai tempi di papà che, con tutte le cose importanti che aveva da fare, ogni domenica ci prendeva e ci portava a vedere la partita. E a soffrire per 90 minuti».

Il fantasma di un padre come il suo non è alla fine un po' ingombrante?

«No, è solo un utile modello. Si diventa ingombranti quando si obbliga qualcuno a seguire una strada non sua. Papà era un uomo straordinario, una centrale di energia che ha costruito dal nulla una fortuna. Paragonarsi a lui è quasi un atto di presunzione».

C'è comunque un periodo della vita in cui anche i migliori genitori non sono un modello, ma un nemico, sia pure simbolico. Lei, Moratti, che adolescenza ha avuto?

«Bella, serena. Papà è sempre stato di-screto nei suoi interventi. Mai invadente e curioso. Magari sapeva perfettamente quello che succedeva, ma non ce ne dava segno. Forse alle femmine di casa è andata un po' meno bene. Ma su di loro interveniva di più la mamma. Noi maschi non abbiamo mai avuto direttive, se non quella di sentirci liberi delle nostre scelte».

Possibile che da ragazzo non abbia mai preso un puntiglio, mai avuto una ribellione?

«Non ce ne era bisogno. Papà era attento a non creare la possibilità di scontri. Dopo la sua morte, ho scoperto in un cassetto la lettera di un professore del liceo che gli consigliava di mandarmi in collegio. Ero troppo distratto dall'Inter, diceva. Papà non mi ha mai mostrato quella lettera. È una cosa che ho sempre trovato adorabile e che ancora oggi mi scalda il cuore».

Come si diventa uomini accanto a una ricchezza che diventa sempre più grande?

«Non mi sono mai sentito un privilegiato. Papà aveva conosciuto la miseria e l'avventura di cominciare, a 14 anni, senza una lira in tasca. Aveva perso la mamma che era molto piccolo ed era fuggito da un rapporto difficile con la matrigna. Ma aveva basi etiche solidissime. Ci raccontava che quando era bambino faceva lunghe traversate sulla neve per andare a trovare suo nonno Angelo nella campagna bergamasca. Il bisnonno - che aveva 21 figli e un numero imprecisato di nipoti - si metteva a capotavola mentre tutti i ragazzini dovevano aspettare accanto al fuoco, seduti nelle panche dentro al camino. Prima mangiava lui, da solo, poi mangiavano tutti gli altri. Non è un imprinting da poco. Mio padre aveva conosciuto sia la disciplina, sia la povertà, sia il sacrifico, sia la gioia della libertà. Aveva l'etica del lavoro, non il gusto vacuo della ricchezza».

Ci dica qualcosa anche di sua madre.

«Faceva la moglie, soprattutto. Adorava il marito e pensava che noi figli venissimo di gran lunga dopo di lui. Noi lo accettavamo perché eravamo del tutto d'accordo con lei. Era una donna che aveva conosciuto la povertà più seria e dava un suo valore al denaro. Era capace di mettere una sterlina in mano a Eugenio Montale per ringraziarlo di una bella conversazione, ed era capace di slanci che cambiavano la vita a tutti».

Per esempio?

«Quello che fece a Levico, dove negli anni Cinquanta andava ogni estate a curarsi un vecchio esaurimento nervoso con le acque delle terme. Li accanto c'era un orfanotrofio. Un giorno ci disse: arriva un altro figlio. Era Alessandro, di quattro anni, fratello bravissimo e amato che si è integrato subito nella nostra grande famiglia».

Veniamo alla famiglia di oggi. Lei è sposato con la stessa donna da quasi trent'anni. Un miracolo, di questi tempi.

«Una fortuna. Dovuta in gran parte a mia moglie Milly, donna notevole, piena di passioni e interessi, che riesce anche a prendersi il carico quotidiano della famiglia. Certe sere fa le tre di notte sui libri del liceo assieme a qualcuno dei nostri ragazzi che deve essere interrogato. Si ricorda tutte le materie scolastiche, è infaticabile».

Tutti dicono che è proprio sua moglie l'intelligente della famiglia. Non ne è infastidito?

«E perché mai? Sono contento per lei. E per me, che l'ho sposata».

Inoltre sua moglie è una militante dei Verdi. Come conciliate in famiglia il diavolo e l'acqua santa, cioè il petrolio e l'ambiente?

«Viviamo seriamente questa contraddizione, ma cerchiamo di trovare un punto di incontro, perché entrambi consideriamo sacro il nostro mestiere. Negli ultimi dieci anni tutti gli investimenti nella nostra raffineria sono stati fatti per migliorare l'impatto con l'ambiente. È buona volontà, ma è anche impresa: altrimenti una raffineria muore».

Quanti figli ha?

«Cinque, come mio padre, due maschi e tre femmine, e anche gli intervalli di età sono più o meno gli stessi. So quello che si può pensare, che ho riprodotto come padre ciò che ho goduto come figlio. Non l'ho certo fatto apposta: ogni volta che mia moglie era incinta, è stata per me una sorpresa. E se l'ho fatto inconsciamente, che c'è di male?

In fondo a lei piace fare da padre anche a certi calciatori, come a Rolando nel vostro travagliato addio. Ci vuole raccontare com'è andata veramente?

«Non certo come dice il pettegolezzo che è stato fatto circolare, con Ronaldo che se ne scappa a causa di una moglie adultera e dei compagni che lo prendono in giro. La verità è più semplice: dopo aver vinto il campionato del mondo, Ronaldo si è sentito come uno che aveva davanti a sé, appunto, il mondo. Voleva andarsene e, non sapendo come fare, si rivolgeva a me come un figlio che dice: "Ti voglio lasciare, ma è per crescere, per esprimermi meglio. Aiutami"».

E lei ha risposto paternamente?

«Ho cercato di aiutarlo, ma una società di calcio non è una famiglia, da cui si scappa e tutto finisce lì. Bisogna rifare i conti, trovare un compratore, individuare un sostituto. Lui ha messo in crisi un progetto nel quale aveva una parte importante. Non biasimo i tifosi che si sentono schiaffeggiati e rispondono a schiaffi».

Coltiverà anche rapporti orizzontali. Quali sono i suoi amici più cari?

«Molti, che mi trascino carnalmente dai tempi della scuola. Ma in questo momento ho grande intimità anche con Tronchetti Provera. Ci piace parlare e abbiamo una forte fiducia reciproca. Non solo stiamo insieme all'Inter, ma io ho fatto anche degli investimenti nella sua azienda. Poi c'è Gino Strada, che mi fu presentato da mia moglie. Lo ammiro molto: avrebbe potuto sfruttare le sue capacità per la carriera e per i soldi, e invece se ne sta lì a tagliare e riattaccare brandelli di corpi».

È d'accordo con Gino Strada anche politicamente?

«Non proprio, non abbastanza. Ma Strada in realtà è meno estremista di quanto si creda. Lui reagisce aggressivamente perché si sente attaccato, ma - a ragionarci - ha il buon senso di capire il punto di vista altrui. Però la realtà resta quella che vede lui, non la nostra. E bisogna starlo a sentire».

Viene da pensare che Strada sia per lei ciò che Muccioli fu per suo fratello.

«No, è diverso. Qui c'è solo una forte amicizia. Lì c'era un rapporto più complesso e un progetto condiviso».

Perché non ha accettato di candidarsi a sindaco di Milano?

«Ci sono andato vicino per tre volte, l'ultima più delle altre, ma poi alla fine non ho mai accettato. Ho qualche idea sulla politica. Ma non ho idee di come si faccia a governare. Penso che la politica, di destra o di sinistra, sia una risposta individuale alle grandi paure che ci attraversano».

Lei che paure ha?

«Una soprattutto: la ricerca della sicurezza. Ho paura che, per difendere ciò che si ha e ciò che si fa, si rinunci alla libertà delle idee. Per questo vedo con simpatia i no global. Propongono un sentimento diverso che è l'unica cosa nuova apparsa all'orizzonte politico. Anche nei centri sociali c'è un germe di nuovo. Sono posti in cui c'è confusione delle idee, ma almeno si pensa. Se solo si riuscisse a dar loro un po' di credito e a farli diventare, come avviene in tante città europee, dei luoghi di ricchezza culturale e non dei ghetti, Milano ne guadagnerebbe parecchio.

Vede che qualche idea per governare Milano ce l'ha. Ma lei ama la sua città?

«Non la trovo meravigliosa, ma le voglio bene. Milano ha passato stagioni esaltanti e stagioni molto brutte. Come quella di Tangentopoli, con quell'implosione terrificante e con la gente paralizzata dalla paura. La città aveva peccato, ma nessuno si aspettava una lezione così».

Ha perso amici durante Tangentopoli.

«Nessuno che mi fosse caro, ma ho visto alcune persone che conoscevo avere problemi con la giustizia. Poi, anche se per molti le cose si sono anche chiarite, le cicatrici sono rimaste».

Nella sua famigliona c'è tutto: Letizia è ministro di Berlusconi, sua moglie è amica di Bertinotti, lei pende per l'Ulivo, i figli occupano le scuole contro la guerra. Come ve la cavate quando state tutti insieme?

«Litighiamo in allegria».

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Un articolo di Enzo Catania, su Hector Cuper

pubblicato su Il Nuovo 

Zigomi sporgenti, occhi ficcanti, capelli d’argento, è arrivato a Milano da Valencia, ma nelle sue vene scorre sangue argentino come quello di un altro mister interista che rispondeva al nome di Helenio Herrera e che sotto un altro Moratti, il mitico papà Angelo, aprì un ciclo leggendario, vincendo in Italia e nel mondo tutto quello che c’era da vincere. Classe 1955 del 16 novembre, segno dello Scorpione, originario di Chabas, modi garbati in un decisionismo spaccasassi, Hector Cuper dal 1978 al 1989 giocò nel Ferrocarril Oeste, conquistando due scudetti argentini. Otto volte nazionale, dal 1989 al 1992 militò nell’Hurricane, diventandone poi allenatore dal 1993 al 1995 e ottenendone la promozione dalla B alla A. Ha sempre amato  l’Argentina, solo come può amarla un argentino vero, ma non gli piaceva affatto l’Argentina dei colonnelli: una cosa infatti è la disciplina, l’ordine e il rigore sul lavoro, ben altra cosa è la  dittatura politica. E quei brutti ricordi di certi anni non hanno smesso di inseguirlo pure in Europa.

Nel 1997 infatti ecco  l’inizio della grande e meravigliosa avventura in Spagna sulla panchina del Majorca, subito affermatasi come squadra rivelazione, anche se poi nel 1998 avrebbe fallito la Coppa di Spagna e nel 1999 la Coppa della Coppe, persa per 2 a 1 nella finale a Birmingham contro la Lazio. Traslocando poi nel Valencia,  Cuper si rese protagonista addirittura di due finali di Champions League, arrendendosi solo nel 2000 davanti allo strapotere del Real Madrid e nel 2001 alla lotteria dei rigori che in extremis premiò il Bayern. Ma chi oserebbe dare dello “sconfitto” a uno che, per quattro volte consecutive ha fatto salire sino all’Olimpo squadre su cui alla vigilia di ogni stagione non c’era spagnolo che osasse scommettere una sola peseta?

Pur credente e pur  pregando spesso Dio, non l’ha mai disturbato per il calcio: “Il Signore ha cose più importanti a cui pensare. E noi uomini certi problemi dobbiamo saperli risolvere da soli”.  Se ipoteticamente dovesse però rinascere non gli dispiacerebbe identificarsi in Madre Teresa di Calcutta. “Una volta-ha confidato- sono riuscito ad avvicinarla e a dirle qualche parola in inglese. Ho provato una sensazione irresistibile. Lei così esile, minuta, piccina, eppure così grande, mirabile, unica. Aveva intorno un’aureola che la rendeva un essere speciale. Un angelo”. Tra i grandi uomini del passato, uno dei suoi principali punti di riferimento è sempre stato Martin Luther King, “un vincente non tanto della causa per la quale si è battuto, ma un vincente della vita”.

Massimo Moratti  seguiva Hector Cuper da tempo,  ma aveva concentrato la sua attenzione su di lui soprattutto negli ultimi  mesi in cui sulla panchina dell’Inter c’era ancora Marco Tardelli.  Ed è andato a prenderselo in Spagna. “E’ stato- ha detto soddisfatto il presidente dell’Inter - il mio più grande colpo della campagna acquisti 2001”.

Al di là del calcio a Hector Cuper sono state sempre riconosciute tre passioni: il cinema (film preferito “Mezzogiorno di fuoco”, capolavoro western di Fried Zinnermann), la letteratura (grandi scorpacciate di scrittori sudamericani, non c’è trasferta in cui pure sull’aereo non abbia un libro tra le mani) e il sassofono, imparato a suonare oltre i quarant’anni, turandosi le orecchie alle frecciatine della moglie Cinzia e dei figli, una famiglia che non è apparsa mai nelle fotografie ufficiali, semplicemente perché ha continuato a vivere la propria vita con normalità, senza mai montarsi la testa. Del resto la stessa infanzia di Cuper è stata quella di un ragazzo qualsiasi, cresciuto da nonna Rosa, una simpaticona di lontane origini italiane che insegnava al nipote come comportarsi bene da cittadino del mondo. Quell’infanzia ha dato a Cuper il culto dell’unione familiare, la possibilità di apprezzare le cose semplici e di crescere sgomitando per crearsi un lavoro dignitoso, “perché questo ti riempie la vita, qualunque esso sia”. Ecco il motivo per cui, pur giocando già a calcio, agli inizi, non si è affatto tirato indietro nel rimboccarsi le maniche e nell’assumere di volta in volta le mansioni di giovane di bottega, aiuto tipografo, cameriere. Uno venuto su con questi concetti in testa, con cos’altro potrebbe essere stato  in dimestichezza se non con pallone e casa?

L’ex romanista Amedeo Carboni, che alla bella età di 36 anni ritrovò nel Valencia di Hector Cuper l’entusiasmo e la carica di un ventenne, raccontava: “E’ serio, non severo, mai impulsivo, mai una volta che si permetta di rimproverare un giocatore in presenza d’altri. Sempre molto professionale, non dà confidenza e non ne vuole. Pretende rispetto. E non è affatto vero che sfianchi i giocatori sottoponendoli ad allenamenti massacranti”. Sia a Majorca che a Valencia, sul campo di allenamento arrivava per primo e se ne andava per ultimo. Fischietto in bocca, taccuino e lapis in mano per annotare, non urlava  e non sbraitava: seguiva l’evolversi delle partitelle e dava suggerimenti più con ampi gesti e mimica efficace che con il tono della voce. I suoi veri quattro assi nella manica si identificavano in quattro parole: cuore, costanza, talento, disciplina.

Già in Spagna, prima di ogni partita, ecco Hector Cuper all’uscita dagli spogliatoi, battere una mano sul cuore di ogni giocatore. E se gli capitava di fumare qualche sigaretta, mai in panchina, ma alla fine della partita prima di presentarsi in sala stampa o a fianco del pullman in attesa della partenza. Piccole cose, certo ma che, agli occhi dei giocatori, ne esaltavano compostezza e grande educazione.

A tavola, mentre altri allenatori avevano un menù a parte, lui mangiava esattamente ciò che mangiavano i giocatori: pasta o riso in bianco o col pomodoro fresco, carne ai ferri, insalate di verdure cotte e crude, al massimo la torta, quasi mai mettendosi  a capotavola ma nel mezzo per dominare la sala. Sempre più duro con se stesso che con gli altri, anche se per lui la parola “duro” aveva  il significato di “esigente”, mai pago, spesso critico, ma più verso se stesso che nei confronti degli altri. Come a dire: “Se non riesci a ottenere ciò che ti aspetti e che vuoi, la colpa è innanzitutto tua o perché non hai carisma, o perché non dai l’esempio, o perché non sai spiegare, o perché non sei in grado di dimostrare a che serve ciò che chiedi”.

Se poi gli si voleva attribuire una specie di decalogo, i comandamenti che gli interlocutori riportavano, avevano molte varianti, però alla base rassodavano sempre la stessa filosofia: quando hai delle responsabilità devi sapertele assumere, devi essere sempre il primo a decidere e devi sempre saperlo fare; oltre che parlare bisogna anche soprattutto sapere ascoltare; quasi mai si possono avere in campo undici fuoriclasse, ma per vincere occorrono undici giocatori motivati, determinati e responsabilizzati, con i quali mantenere un rapporto diretto e di reciproca fiducia; indispensabile creare il gruppo attraverso la critica, il confronto e la discussione, evitando però esasperazioni, processi pubblici e sommari e proteggendone a qualsiasi costo la privacy, di fronte a qualsiasi pressione esterna; l’equilibrio psico-fisico si forma anche attraverso la riservatezza e l’umiltà, di cui l’allenatore, salvaguardato da ingerenze esterne, unico responsabile della squadra e unico a doverne rispondere, non può che essere costante esempio, trattandosi di due armi vincenti per ottenere risultati sia nel calcio che nella vita.

Un tipo dunque tanto schivo e  riservato, addirittura ostico alle frequentazioni mondane e alle parate perditempo, quanto lucido e incisivo nella progettualità tattica e tecnica, adorato dai giocatori anche per  la sua abitudine di mettere a nudo i problemi, affrontandoli  uno a uno. L’uomo dunque giusto al momento giusto sulla panchina giusta per dare finalmente all’Inter quegli scampoli di gloria che meritavano la sua storia, i suoi tifosi, il blasone dei Moratti, con Massimo che in nerazzurro aveva raccolto eredità e passione di papà Angelo?

Già alcune settimane dopo che Hector Cuper, nato e cresciuto dalle parti di Santa Fè, fra il Rio Salado e il Paranà,  è arrivato a Milano raccontavano che aveva tutte le chances per diventare all’Inter l’hombre del destino. E poiché oltretutto è sbarcato nella metropoli lombarda con la sua  Station Wagon americana, riprendevano ad accostarlo ad Helenio Herrera che, quarantun anni prima, aveva raggiunto i Moratti nella loro villa di Imbersago. E nello stringere la mano di papà Angelo, che di allenatori anche lui ne aveva già cambiati nove, l’avrebbe subito fatto arrabbiare dicendogli: “Querido presidente, me digono che le lei  è troppo buono con i giocatori”, ma l’avrebbe subito anche addolcito poiché per il palato e l’intuito dell’uomo d’affari diventava miele quella sicurezza di “Accaccone” (Brera dixit) che sparava piatto: “Soy soltanto colpevole di essere il più bravo”.

Per gli amanti dei ricorsi storici, l’unica differenza tra Helenio Herrera ed Hector Cuper dopo quarantun anni stava semmai nell’ingaggio annuo: 30 mila dollari per don Helenio, cioè 45 milioni di lire che, in un’epoca in cui i tecnici più blasonati oscillavano tra i 15 e i 20, erano comunque una somma da Paperon de’ Paperoni; 5 miliardi tondi a stagione per don Hector Raul. Che importava poi se l’argentino di papà Angelo aveva un carattere estroso e alla dinamite e quest’argentino del figlio Massimo è subito apparso portandosi cucita addosso la riservatezza personificata? Ad unirli, ecco la filosofia di fondo. “Ganeremos todo y contra todos” (“vinceremo tutto e contro tutti”), aveva detto Helenio Herrera al suo arrivo nel ritiro di San Pallegrino. “Lo penso e lo ripeto anch’io”, ha detto Cuper a quanti gli hanno ricordato l’episodio durante il primo ritiro in Valle d’Aosta. Il paragone con il prode connazionale, colonna di un intero ciclo interista, non solo dunque non gli è dispiaciuto, ma lo ha trovato positivo e stimolante. D’altronde per tutti gli argentini il calcio, ha detto una volta  Cuper, “è  una specie di sangue che ci scorre dentro nelle vene come il tango. Solo che il tango è triste, è struggente invece il calcio dà gioia. E per questo che il pallone in Argentina non morirà mai”. Ed è anche per questo che non potrà mai dimenticare il giorno in cui l’Argentina vinse il Mondiale e le strade si affollarono pure di gente che mai una volta era stata allo stadio: “L’Argentina ha un cuore che pulsa al ritmo del calcio”.  Quando poi il calcio diventa studio, applicazione a passione, si trasforma in qualcosa che ti gratifica l’esistenza. E allora scopri  la necessità  di fare sempre più le cose al meglio.  E allora cerchi anche di lasciarti alle spalle ogni ostacolo, mettendocela tutta. Potevano questo modo di pensare e questa determinazione del Mister non dare  carica all’entusiasmo di Massimo Moratti? Il presidente un giorno ha spiegato che la scelta di Hector Raul Cuper è stato frutto  di una sua precisa convinzione: “Alcuni anni fa ero in Argentina e mi parlarono di lui. Da allora ho cominciato a seguirlo e a persuadermi sono stati i risultati che ha ottenuto in Spagna, recuperando anche giocatori che erano stati dati per finiti. Ve lo garantisco: è un allenatore con grande carisma e tanta sostanza”.

Per un argentino già vissuto in Spagna l’ambientamento e le frequentazioni in Italia non sono stati difficili. Sin dall’inizio Hector Cuper  non si è neppure preoccupato di eventuali difficoltà con la lingua, utilizzando termini spagnoli, italianizzandoli ed esprimendo alla fine concetti molto chiari, quasi inventando un esperanto italospagnolo tutto suo, pur non rinunciando al ruolo di puntiglioso scolaro agli… ordini di Juan Manuel Alfano. Ha trovato il clima di Milano un po’ rigido d’inverno, “ma la città non è fredda, la gente che ho incontrato è stata calorosa. Ho tratto la sensazione che noi argentini ci sentiamo più vicini agli italiani che agli spagnoli”.  Circa la vita in casa assolutamente nulla è cambiato rispetto ai tempi in cui stava in Argentina e in Spagna. “Mia moglie Cinzia- ha confidato nel gennaio del 2002, - è il mio capo. Organizza alla perfezione la mia vita di marito e quella dei miei figli. Dovrei definirla casalinga, secondo antichi schemi, invece lavora come una matta e senza il suo apporto l’unione familiare, che è  il valore più alto di un nucleo, andrebbe alle ortiche. E poi se dicessi che non lavora, non potrei più ritirarmi in casa…. Ci siamo conosciuti in quanto dirimpettai. L’ammiravo dal balcone, i nostri palazzi s’affacciavano sullo stesso vicolo. Anche lei mi sbirciava. La nostra storia somiglia a quella di Giulietta e Romeo. All’epoca giocavo in serie B. Non mi ha più mollato”.   Erano i tempi dei colonnelli. “E’ stata un’esperienza - ha ribadito- che mi ha insegnato come il bene supremo di un uomo sia la libertà. Ci sentivamo spiati in tutto, una situazione tremenda. Chiaramente regnava l’ordine, ma solo perché dominava la paura. Nessuno rubava per paura: se ti arrestavano, mica potevi farti chiamare un avvocato…”. Circa però l’impatto con l’Europa nel ruolo di allenatore, poco piacevole  il primo ricordo: “Nel momento della presentazione alla stampa, qualcuno mi chiese: pensa di mangiare il torrone? E io risposi: ma certo, sono molto goloso. Ah, replicò il giornalista, allora non teme di essere licenziato prima? Incredibile, ero stato appena ingaggiato”.

Seguirono l’ambientamento, i primi successi,  i primi amici, il piacere della Spagna, l’offerta di Moratti, il sì all’Inter, l’arrivo in auto “ poiché mi piace guidare molto, al volante pensi, metidi, arrivi persino a rilassarti”, la conferma dei suoi hobbies, con l’aggiunta di altri particolari. Per esempio: “Amo leggere Platone, anche se non sempre capisco le sue teorie. Entro sempre volentieri in una libreria, mi sembra di aprire un cofanetto prezioso e misterioso. Acquisto quattro cinque libri per volta, magari riesco a leggerne solo uno ma il libro è magico. Emana fascino. Di solito preferisco filosofia e psicologia, materie molto utili alla mia professione”. E ancora: “Mi piace ballare il tango ed altri ritmi. Non so se ballo bene, so che ballo volentieri”. Sempre viscerale la passione per il sassofono, con un rimpianto: “A Milano mi esercito poco”. 

 L’idillio con i tifosi è nato quasi subito. D’altronde, dopo tante delusioni e un vorticoso balletto di allenatori susseguitisi per anni, il terreno era più che fertile per raccogliere consensi e riprendere ad alimentare attese e speranze. Ma in pochi, sia durante la sua permanenza in Spagna che dal giorno del suo arrivo in Italia hanno sottolineato un’altra delle doti particolari di Hector Cuper: la testardaggine nel sottoporre a test le proprie teorie senza confrontarle con nessuno. Il che, attenzione, non vuol dire che non ha l’abitudine a dialogare con i suoi collaboratori, visto che l’ha fatto ovunque. Vuol dire solo che non ha mai smesso di sottoporre a una specie di test personale le sue convinzioni in base ai giocatori a disposizione e quelli più in forma  e in salute, dando prima uno sguardo all’infermeria, alla tabella delle squalifiche, al tipo di avversario da affrontare, a strategia e tattica da adottare. Per il resto, il motto di sempre: “Le responsabilità sono mie e soltanto mie”. Eccolo perciò comunicare la formazione a Massimo Moratti sola durante la mattinata di domenica senza che per questo il presidente ne abbia fatto mai un problema, poiché ha capito che l’autonomia e i metodi cari a Cuper si sono sempre riflessi positivamente sulla tranquillità della squadra. Eccolo decidere i tempi di recupero di Ronaldo a prescindere dagli umori esterni. Eccolo andare avanti tranquillamente con Kallon e Ventola sino a quando personaggi carismatici e insostituibili come Christian Vieri sono stati fermi per infortunio. Ed eccolo suonare la carica non appena lo stesso Vieri si è reso disponibile, riprendendosi il suo ruolo di “Bobo-gol”, forse il migliore di tutti i tempi. Ed eccolo sempre imperturbabile davanti al quesito riguardante Alvaro Recoba, se farne ciò un tassello fisso all’interno della squadra oppure una pedina mobile in base alle partite e  alle solite disponibilità della rosa. Un Cuper così abituato a muoversi al di sopra delle righe, ha reso persino vano l’eterno dilemma se la sua indole sia quella di un difensivista oppure no. Un esempio per tutti: nella partita del gennaio 2002 a San Siro contro il Parma, che avrebbe portato l’Inter  al vertice della classifica, Cuper ha contemporaneamente schierato Conceicao, Recoba, Kallon e Vieri, esprimendo bel gioco e mandando alle ortiche i pronostici di quanti vedevano una squadra più votata alla difesa a oltranza con azioni in contropiede che orientata decisamente all’attacco. Ecco allora Cuper farsi anche fama di allenatore imprevedibile, capace di tirarti la formazione che magari non  sono abituati ad aspettarsi gli altri, ma che si  sposa in quel momento con la situazione.

L’ imprevedibilità, e di conseguenza  la capacità da parte di Cuper di rendere vulnerabili le attese altrui per gratificare innanzitutto le proprie, è dimostrata da un altro episodio significativo, che fece da vero spartiacque alla sua carriera. Appese infatti al chiodo le scarpette da calciatore, per poter restare  nel mondo del calcio si iscrisse contemporaneamente a due corsi: quello di allenatore e quello di giornalista. Ebbene, approdò per primo a quello di allenatore e ci restò. “Ma come se la sarebbe cavata con la penna?”, gli chiesero in una conferenza stampa. “Magari bene -rispose- perché dedico sempre tutto me stesso alle cose che intraprendo. Ma dietro alla telecamere ho provato a starci e fu una cosa tremenda, un’autentica vergogna. Uno dal di fuori magari pensa sia facile fare televisione e invece quando devi parlare in diretta…Rividi la mia registrazione: un disastro totale”.  Mica però perché fosse un freddo!  “E poiché il carattere-spiegò-  viene fuori qualsiasi cosa si scelga di fare nella vita, mi sono accorto che contrariamente a quanto alcuni potrebbero pensare, io non sono affatto un freddo. Vivo infatti le pulsazioni di tutti, riuscendo però a nasconderle, perché per il mio ruolo, ripeto, devo sempre mostrarmi equilibrato”.  E infatti, sia nella giornate in cui ha perso, ha vinto o ha pareggiato; sia a Majorca, a Valencia, a Milano o in qualsiasi altra città in cui le squadre da lui allenate si sono trovate in trasferta, avete mai visto Hector Cuper istrione o vanesio, depresso o euforico, millantatore o terribilmente sottotono?  E’ un Mister da Terzo Millennio, ma il suo Dna è come se si fosse perfezionato nei decenni del calcio. Un Mister insomma assai navigato, venuto da lontano…

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Recensione del libro di Nando dalla Chiesa

intitolato "Capitano, mio Capitano" 

La leggenda di Armando Picchi, livornese nerazzurro,

scritta da Michele Mancino e pubblicata su  varesenews@ilcircolino.it
Redazione Via S. Imerio 10 - Varese 0332/242580 fax 0332/236302 

Il giocatore lo riconosci dal coraggio, dall'altruismo e dalla fantasia, canta Francesco De Gregori ne "La leva calcistica del '68". 
Armando Picchi da Livorno, era tutto questo e anche di più. Era un libero -  gente pregiata nel calcio- di quelli che il pallone ce lo hanno prima nel cuore e poi tra i piedi. Il suo nome è rimasto legato alla Grande Inter, quella di Moratti ed Herrera, di cui era capitano e leader morale.
Il suo viso scavato da marinaio livornese divenne la bandiera di una compagine che ha fatto la storia del calcio italiano. Lui ne era il Capitano. Un carisma che si era conquistato in campo e nello spogliatoio, per i suoi takle e per i suoi discorsi, per le sue chiusure perfette in difesa e per la generosità dei suoi rilanci verso i compagni. Si scontrò con un altro grande, Herrera, il Mago. Grandi entrambi sì, ma profondamente diversi nel modo di sentire la vita. Una diversità che a Picchi costò il posto in squadra e il trasferimento in provincia, al Varese, quello di patron Borghi.

Il destino non fu tenero con il Capitano. Un grave incidente, durante un incontro con la Nazionale, ne stroncò la carriera. Correva il 6 aprile del 1968, a Sofia si giocava Bulgaria- Italia, era l'andata dei quarti di finale degli Europei. Al 24mo minuto del primo tempo Picchi intervenne a chiudere una discesa del mediano Yakimov. Uno scontro terribile. Lo portarono  negli spogliatoi, aveva rimediato una commozione cerebrale. Lui chiese di rientrare e rientrò. Si mise all'ala, sulla fascia. Rimase fermo, "immobile come una statua", senza poter intervenire, forse senza capire nemmeno il perché. Era ritornato in campo con una commozione cerebrale e con l'osso pubico fratturato.Dopo aver vinto tre scudetti, due coppe europee e due coppe intercontinentali, poteva diventare un grande allenatore. Un passaggio naturale per uno come lui che, prima nell'inter e dopo nel Varese, allenatore lo era già stato. Un faro in campo, che indicava ai compagni la rotta da seguire.
Iniziò sulla panchina del suo Livorno, serie B, nella stagione  1969-70, a campionato iniziato. Gli amaranto navigavano in cattive acque, ultimi dopo il girone d'andata. Lo chiamò il fratello Leo e il Capitano rispose. Il Livorno si salvò, chiudendo al nono posto. Poi arrivò la proposta di Italo Allodi, figura storica del calcio nostrano, volpe del mercato,  architetto della Grande Inter. Era la stagione 1970-71, e a 35 anni Picchi, il più giovane allenatore della serie A, sedeva sulla panchina della Signora più blasonata e temuta d'Italia, quella bianconera.

In quella Juventus muovevano i primi passi giovani di belle speranze che sarebbero diventati campioni:  Franco Causio, leccese sanguigno dal talento cristallino;  Roberto Bettega, il Charles minore, che in area  avversaria svettava sempre su tutti; Fabio Capello che disegnava belle geometrie a centrocampo; Pietruzzo Anastasi il saraceno, bomber di razza eccelsa.
Armando Picchi su quella panchina durò pochi mesi e non per suo demerito. Quei dolori alla schiena che si facevano ogni giorno più intensi, non erano semplici reumatismi, come lui pensava. Un male incurabile lo stava minando dal di dentro, fino a fargli perdere l'uso delle gambe. Morì il 26 maggio, mentre i suoi ragazzi erano a giocarsi la finale della coppa delle Fiere, quella che noi oggi chiamiamo Coppa Uefa, contro il Leeds.

Armando Picchi detto Penna Bianca, nomignolo affibbiatogli da un altro grande, Gianni Brera, è stato un campione di quelli che non se ne vedono più, e non perché il passato è sempre meglio del presente, ma perché una volta il mondo del calcio era altra cosa e anche i figli che generava erano altra cosa. Quel mondo ha provato a raccontarcelo Nando dalla Chiesa. È la seconda volta che ci tenta, lo aveva già fatto - splendidamente - con Gigi Meroni, "La farfalla granata", altro mito e meraviglia del futball desaparecido .

Il risultato è un libro bello e commovente, pennellate di bianco e nero che ci rimandano una figura eroica in campo e anche fuori, amata dai compagni, porto e sicuro approdo non solo di passaggi e palloni, ma di speranze e aspirazioni di intere generazioni di  tifosi.
È passione pura quella che guida il racconto di Nando dalla Chiesa. Passione di tifoso e di uomo impegnato nella società civile, di chi sa riconoscere il valore aggiunto che figure come quella di Armando Picchi apportano alla storia.

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Brano tratto da un articolo di Enzo Catania, su Giovanni Trapattoni -

- che è stato allenatore dell'Inter - pubblicato su Il Nuovo 

....... Nel 1986 eccolo all'Inter ridisegnare in meno di tre anni la squadra, scatenare nel campionato 1988-89 la più straordinaria delle cavalcate con 26 vittorie, sei pareggi, due sole sconfitte, sempre in testa alla classifica dall'inizio alla fine, sino alla conquista dello scudetto e staccando il Napoli, secondo, di ben 11 punti. Chiaro perché anche il popolo nerazzurro amò il Trap? Non solo: quando sembrò evidente che non ci fosse amore tra Massimo Moratti e Gigi Simoni, proprio nell'anno in cui avrebbe esordito la coppia Ronaldo-Baggio e ancora non c'era nulla che facesse prevedere l'arrivo di Marcello Lippi, in tanti sognarono che sulla panchina nerazzurra potesse tornare subito il Trap, che aveva ormai chiuso la sua trasferta in terra tedesca.

Il Trap aveva tenuto a battesimo quella squadra nerazzurra che, cogliendo lo scudetto, era entrata nella storia. Quante piccole liti con Matthaus, quante scenette gustose con il tedesco che rivolto alla panchina chiedeva: “All'attacco, mister, all'attacco?” e lui che fischiava e urlava: “Stai lì, Lothar, che è meglio”. E aveva sfornato una squadra formidabile con Zenga in porta, Bergomi e Ferri marcatori, Mandorlini oppure Verdelli nel ruolo di libero, Brehme regista sulla fascia sinistra con cross millimetrici, Bianchi uomo d'ordine sulla destra, al centro due terremoti della forza di Berti e di Matthaus, con Matteoli che dava equilibrio e geometria, Diaz che sfruttava ogni spazio, Serena boa centrale, colpitore di testa come pochi, all'occorrenza torre per l'irrompente compagno di turno. Consideravamo il Trap una specie di “Socrate della Brianza”, forte nell'arte della maieutica, sergente di ferro che però sapeva leggere nel cervello di ogni giocatore, ne guidava lo spirito, ne solleticava l'umore, ne alimentava la rabbia per trasformarla in produttività. Sempre tutti miracoli del suo Dna! “Sa cavalcare il momento psicologico dei singoli e della squadra”, diceva già allora Aldo Serena.

Proprio per questo, dopo che l'Inter nel 1991 aveva vinto anche la Coppa Uefa battendo in finale la Roma, lo rivolle a Torino l'Avvocato che aveva dato il benservito a Gigi Maifredi. .......

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Brano tratto da un articolo di Enzo Catania, su Marcello Lippi  

- che è stato allenatore dell'Inter - pubblicato su Il Nuovo 

..... E pensava all'Inter, la sua nuova squadra: riuscendo infatti a resistere ai corteggiamenti di Sergio Cragnotti, aveva risposto con entusiasmo sì a quelli di Massimo Moratti.  "Le dimissioni di Lippi dalla Juventus - diceva il presidente dell'Inter - sono state un gesto di grande dignità. Non voglio entrare nelle vicende bianconere, ma la situazione stava ormai andando in una certa direzione. Lippi non ha abbandonato una nave alla deriva. Il suo è stato un gesto di grande responsabilità".

         Fu così che agli occhi dei tifosi interisti Marcello Lippi non diventò solo l'allenatore che con la Juventus aveva scritto un ciclo. Era il nuovo Messia che avrebbe sanato ferite, fatto fiorire sorrisi, rilanciato sorpassi e voglie d'Europa, rimesso in moto corse verso la vetta della classifica, riportato scudetti e trofei, allevato e reclutato altre legioni di tifosi nerazzurri. Basta insomma notti insonni. Basta sorrisetti ironici sulle labbra dei menagramo che avevano fatto dell'Inter la squadra più sbertucciata d'Italia, in caduta libera, preda di uno spogliatoio ritenuto in più d'una occasione isterico e devastato. Basta dubbi e crucci. Basta macerarsi il fegato. Nuovo Messia, nuova Inter, nuova èra sulle ali della nuova coppia d'attacco formata dal brasiliano Ronaldo Ruiz Nazario de Lima e dall'italoaustraliano Christian Vieri, primo grande colpo di mercato alla vigilia del debutto di Marcello Lippi sulla panchina nerazzurra.

Quando in una Milano calda e appiccicosa Marcello Lippi apparve per la prima volta accanto a Giacinto Facchetti e a Peppino Prisco, sui visi della "quercia di Treviglio" e dell'intramontabile avvocato si leggeva serenità e fiducia. Alle loro orecchie risuonò musica innanzitutto una frase: "Le mie scelte sono solo tecniche. Non consentirò a nessuno di rovinarmi il mio lavoro. Se qualcuno rompe le scatole, lo prendo e lo caccio via...Voglio una squadra che superi la barriera di sentirsi legata a un campione". E il discorso valeva per tutti: "Giocheremo con una buona difesa e l'attacco dovrà pensare solo a fare gol". In quanto a Ronaldo-Vieri, "la coppia ha forza, tecnica e fantasia. Per farla però rendere al massimo, dobbiamo essere squadra. E le premesse ci sono".

      L'Inter di Marcello Lippi partì "sparata". Dopo solo cinque giornate i nerazzurri si trovarono in testa alla classifica. Purtroppo quel momento magico durò poco: prima l'assenza di Ronaldo per infortunio, poi quella di Vieri, tolsero al viareggino due sicuri numeri vincenti, assottigliando in maniera determinante la potenzialità della squadra in fase di realizzazione. E quel 12 aprile all'Olimpico contro la Lazio, che avrebbe dovuto essere per l'Inter una serata di grande festa per il rientro di Ronaldo, diventò un urlo di dolore, tante lacrime, per quel ginocchio che aveva ceduto ancora. Il dramma del Fenomeno commuoveva l'Italia intera al di là del tifo. Ma anche il campionato 1999-2000 dell'Inter, quello che secondo la stragrande maggioranza dei pronostici avrebbe dovuto consacrare lo scudetto dopo dieci di astinenza, finiva in modo tale che, per accedere alla Champions League, i nerazzurri milanesi di Marcello Lippi dovettero disputare lo spareggio con i parmensi di Alberto Malesani. Vieri tornò a infortunarsi, ma un Baggio spettacolare diede all'Inter il passaporto verso la Coppa dei Campioni.

       Finita la stagione, si disse e si scrisse che il viareggino avesse offerto le sue dimissioni a Moratti poichè il traguardo dello scudetto non era stato raggiunto e poichè era il caso che chiunque, a partire da lui, si rimettesse comunque in discussione. Si disse e si scrisse che Moratti non solo le rifiutò ma confermò Lippi ridandoglia carta bianca. Con il senno del poi, visto come poi si sarebbero messe le cose, forse sarebbe stato un bene per tutti se il rapporto fosse stato risolto allora. Diceva Napoleone che al suo fianco non voleva solo generali bravi, ma anche fortunati. Che Lippi fosse bravissimo non c'erano dubbi, al punto che non appena circolerà la voce che Sven Goran Ericksson,allenatore della Lazio, avrebbe lasciato a giugno del 2001 Roma per andare a occupare la panchina della Nazionale d'Inghilterra, uno dei primi nomi che si faranno tra i mister preferiti da Sergio Cragnotti sarà proprio il suo. Ma che sotto la casacca nerazzurra fosse stato altrettanto sfortunato, visto che non aveva mai potuto disporre di Ronaldo e Vieri insieme e che periodicamente si era dovuto arrendere davanti ad altri infortuni, nessuno poteva certo dirlo. E che fosse pure sfortuna il fatto che Alvaro Recoba, dopo una partita all'arma bianca dell'Inter a San Siro contro la pur modesta formazione dell'Helsinborg, sbagliasse addirittura anche il rigore decisivo che avrebbe potuto tenere in corsa i nerazzurri per l'Europa, era un dato incontrovertibile. Poi quella partita fuori casa contro la Reggina, giocata non male ma conclusasi malissimo come risultato, mandava così in bestia Lippi che davanti ai microfoni non aveva esitazione a dire che i calciatori andavano presi a calcioni in quel posto e che se lui fosse stato il presidente, avrebbe licenziato l'allenatore. E il giorno dopo eccolo infatti a colloquio con Moratti. Forse lui pensava che, rimettendosi in discussione, sarebbe stato aiutato a fare ordine in certi tasselli di un mosaico in cui tante pedine pensavano di continuare a fare di testa loro. Invece si vide esonerato: secondo la società evidentemente mancavano le basi per proseguire il rapporto, quelle frasi a Reggio Calabria erano diventate spartiacque, meglio chiudere la pagina e farsi ciao ciao senza rancore. ......

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 LEGGENDE DI "PALLONE" 

 L'appassionante avventura di uno sport che da molti secoli si accompagna alle vicende dell'umanità

 LA STORIA NEL PALLONE 

INTER-HERRERA: I DUE NOMI MITICI DEGLI ANNI '60                       di IGOR PRINCIPE

Gli anni Cinquanta, come abbiamo visto nella precedente puntata, cambiano il volto del sistema calcio. L'avvento della televisione e la nascita di squadre-mito (l'Ungheria di Puskas, il Real Madrid dello stesso magiaro e di Alfredo Di Stefano) sono i due elementi che più di tutti contribuiscono a fare dello sport più popolare al mondo un vero e proprio spettacolo. La trasfigurazione si completa a metà degli anni Sessanta grazie ad una squadra italiana: l'Inter. Dal 1954 ne è presidente un petroliere milanese, Angelo Moratti.
Dopo sei anni opachi quanto a risultati, il massimo dirigente chiama ad allenare i nerazzurri Helenio Herrera, argentino di origini spagnole che alla guida del Barcellona ha riscosso buoni risultati. L'ingaggio - 100mila dollari annui più i premi partita, inclusi quelli delle squadre giovanili dell'Inter - rende la misura del valore dell'uomo, che si autoproclama "mago" e stupisce i calciofili per la scarsa importanza che ripone negli schemi di gioco. 

Il giornalista Gian Paolo Ormezzano, in un suo libro, ha scritto che Herrera "preferì intitolare tutto a se stesso, ai propri metodi spinti di allenamento, alla carica che in qualche maniera, dialettica o chimica, riusciva a impartire alla squadra. Ma la vera rivoluzione (…) consistette soprattutto nella costruzione totale della figura del tecnico, il quale divenne autenticamente mago, in possesso di poteri altissimi sul corpo e anche sull'anima dei suoi adepti, cioè dei suoi giocatori". Poteri che esercita con una concezione maniacale del calcio, che arriva a totalizzare la vita di chi lavora ai suoi ordini. Ai difensori, per esempio, pochi giorni prima di ogni partita consegna una fotografia dell'attaccante che devono marcare, intimando loro di portarsela anche in bagno. La sua, ad ogni modo, è un mania dai risvolti positivi, che non coinvolge l'impegno mentale dei giocatori anche nell'aspetto tattico.

In altre parole, Herrera non è un fanatico degli schemi. Anzi: degli undici che vanno in campo, ben quattro giocano soprattutto sulla fantasia: lo spagnolo Suarez, Mazzola, Corso, e il brasiliano Jair. Tra questi, il primo è ricordato per la capacità di lanciare il pallone per oltre quaranta metri con millimetrica precisione; e Corso per aver inventato il tiro "a foglia morta", che prima faceva impennare il pallone e poi, d'improvviso, lo lasciava cadere in rete, alle spalle del portiere. Con loro (e con altri campioni quali Facchetti, Burgnich, Picchi, il portiere Sarti) l'Inter di Herrera passerà alla storia. Non tanto per le vittorie nel campionato italiano (nel 1963, '65 e '66), quanto per quelle in campo internazionale.
Nel 1964, allo stadio del Prater di Vienna, i nerazzurri conquistano la Coppa dei Campioni battendo in finale il fortissimo Real Madrid, bissando il successo italiano ottenuto l'anno prima dal Milan. Nel 1965 raddoppiano, nella finale di Milano vinta 1 a 0 contro il Benefica. Non contenti del primato in Europa, i ragazzi di Herrera si impongono anche a livello mondiale, vincendo due coppe Intercontinentali consecutive ('65 e '66) battendo in entrambe le occasioni gli argentini dell'Independiente. In questo modo, l'Inter non solo scrive pagine memorabili nella storia calcistica mondiale, bensì imprime il suo marchio nel costume del Paese, contribuendo ad alzare il volume di quel "boom" che ne scuote l'economia e il modo di vivere.

Gli anni Sessanta, insomma, non passeranno alla storia soltanto per un diffuso, ritrovato benessere economico o per le canzoni di Gino Paoli, Celentano e Mina, ma anche per i trionfi della "Grande Inter". L'Italia non è il solo Paese interessato da questo fenomeno di emulsione tra calcio e costumi sociali: qualcosa di analogo, infatti, si verifica in Inghilterra nell'estate del 1966, passata alla storia come "l'estate di Bobby Charlton". Nella patria del football, quell'anno, si giocano i mondiali, e Charlton è uno degli attaccanti della nazionale inglese.
Con una storia da romanzo alle spalle: fa parte, infatti, di quel Manchester United che, a metà degli anni Cinquanta, rappresenta l'unica vera squadra capace di insidiare il dominio europeo del Real Madrid. In panchina siede un tale Matt Busby, allenatore con il gusto del rischio che decide di sostituire il suo primo attaccante Tommy Taylor (un idolo dell'epoca), infortunato, con il diciannovenne e inesperto Charlton. Che, da brutto anatroccolo, si scopre cigno: i suoi gol portano i "reds" (come vengono chiamati i giocatori del Manchester) alla vittoria nel campionato inglese.

La stagione successiva giocano la Coppa dei Campioni, e tra i loro avversari figura la Stella Rossa di Belgrado. Di ritorno dalla trasferta nella capitale jugoslava, l'aereo sul quale viaggia la squadra si schianta al suolo sulla pista dell'aeroporto di Monaco di Baviera, causando la morte di quasi tutti i giocatori. Si salvano in pochi, tra i quali Charlton e Busby, che trovano la forza per ricostruire la squadra, portandola a vincere tre titoli nazionali, una coppa d'Inghilterra ma soprattutto, prima tra tutte le squadre inglesi, l'edizione della Coppa dei Campioni del 1968.

La popolarità di Charlton, tuttavia, ha già raggiunto il suo acme due anni prima, in occasione dei suddetti mondiali, che si disputano nel pieno di quella primavera sociale che l'Inghilterra ricorda con il nome di "swinging London". Nella patria di Albione impazzano le minigonne di Mary Quant e le stravaganze di Carnaby Street, la musica dei Beatles e quella dei Rolling Stones. Sembra, insomma, che ogni ventata di novità che soffi in Europa e in America provenga da oltre Manica.

In un clima che fa sembrare Londra il centro del mondo, è inevitabile che a vincere i mondiali al cospetto della regina Elisabetta II sia proprio la nazionale di casa. Con una partita che, però, sarà ricordata come quella del "gol fantasma" regalato agli inglesi dall'arbitro svizzero Dienst. Di questa storica svista ne fa le spese la Germania Ovest, che per i primi novanta minuti riesce a tener testa all'Inghilterra e la costringe a chiudere i tempi regolamentari sul 2 a 2. Nel primo dei tempi supplementari si verifica il misfatto: l'inglese Hurst scaglia un potente tiro che manda la palla a sbattere contro la traversa, quindi a rimbalzare in campo.
Gli inglesi, credendo che la sfera abbia superato la linea di porta, si lasciano andare all'esultanza; i tedeschi, convinti del contrario, accerchiano l'arbitro che si dirige verso il guardalinee. Ancora oggi, le immagini di repertorio non sono in grado di offrire l'esatta posizione del pallone al momento in cui tocca il terreno; sta di fatto che il guardalinee lo vede al di là della porta, e l'arbitro convalida il gol. Per i tedeschi è il colpo definitivo: scoraggiati, lasceranno che l'Inghilterra segni un'altra rete e conquisti un titolo mondiale che - complice anche il fatto di essere stato l'unico vinto finora - entra di prepotenza nella storia del costume nazionale. Quattro anni dopo, per la Germania Ovest, i tempi supplementari si rivelano ancora fatali, in una partita contro l'Italia che l'unanimità degli appassionati di calcio ritiene "la partita del secolo".

Si gioca il 17 giugno del '70 allo stadio Azteca di Città del Messico, ed è la semifinale di un nuovo campionato del mondo. L'Italia è allenata da Ferruccio Valcareggi e schiera un "undici" storico, nel quale spiccano i nomi di Gigi Riva, Roberto Boninsegna, Gianni Rivera. Dall'altra parte, i "panzer" tedeschi arrivano a quell'appuntamento forti di quattro vittorie su quattro partite e di 13 gol messi a segno, 8 dei quali dal solo Gerd Mueller, sgraziato ma efficacissimo attaccante. Sembra una partita destinata a finire come tante altre: passa in vantaggio l'Italia con un gol di Domenghini, e quel vantaggio tiene fino a oltre il novantesimo minuto, arginando i ripetuti attacchi dei tedeschi. Fino a quando il difensore Schnellinger - che da dieci anni milita in una squadra italiana, il Milan - trova il pareggio con un gol in scivolata nei due minuti di recupero concessi dall'arbitro.
"Proprio lui!", è lo spontaneo commento di Nando Martellini, che racconta la partita ai telespettatori italiani. Si va ai supplementari, e il match entra nel mito. Le due squadre danno vita a un botta e risposta di gol che esalta chi gremisce gli spalti e tiene con il fiato sospeso, nelle rispettive nazioni, almeno cinquanta milioni di persone incollate alla televisione malgrado, per il fuso orario, in Europa sia notte inoltrata. Va subito in vantaggio la Germania grazie a una papera difensiva di Poletti. Pareggia un altro difensore, Burgnich e Riva segna il gol del 3 a 2.

Immediata la replica tedesca con Mueller, cui segue, solo un minuto dopo, l'apoteosi italiana. Discesa sulla fascia sinistra di Domenghini, che raggiunge l'area di rigore avversaria e detta un passaggio leggermente arretrato, sul quale arriva in corsa Rivera. Che calcia male, ma spiazza il portiere tedesco. E' il 4 a 3, risultato definitivo e impresso nella storia del calcio come il punteggio della partita più bella mai giocata da due squadre. In Italia, la gente scende nelle piazze e si dà alla pazza gioia, improvvisando caroselli che riempiono di colori ogni città. "Celebrando quella vittoria, l'Italia celebrò se stessa", ha scritto un autorevole sociologo, Nando Dalla Chiesa. "E' stata la partita che ha ribaltato alcune credenze relative alla squadra azzurra, al calciatore italiano e addirittura all'italiano tout court - è il commento di Gian Paolo Ormezzano -.

Il mondo si è sorpreso di vederci agonisti, combattivi, tenaci, volenterosi, disperati di una disperazione lucida. I primi sorpresi, tuttavia, siamo stati noi stessi. Probabilmente nessun incontro nella storia del nostro calcio, nessun avvenimento nella storia del nostro sport ha inciso così profondamente i pensieri, le credenze nazionali". Una partita, insomma, che nella storia d'Italia ha contato addirittura più di quelle giocate dalla nostra Nazionale nell'82 in Spagna, dove l'undici allenato da Bearzot vince il titolo mondiale. Allo stadio Azteca, ora, una targa murata ricorda quell'evento, celebrato anche con la consegna di una coppa speciale ai tedeschi da parte degli organizzatori messicani, sulla quale è incisa la frase "Vencido y vencedor, siempre con honor".
Il trionfo italiano, ad ogni modo, si spegne sotto i colpi del brasile di Pelé, avversario nella finale del 21 giugno. I "carioca" vincono 4 a 1, avendo facile gioco su una squadra stremata dalla fatica di quegli storici tempi supplementari, e conquistano definitivamente la Coppa Rimet, avendola vinta già altre due colte, nel '58 in Svezia e nel '62 in Cile. Ma al di là della spossatezza degli italiani (che al ritorno, a Fiumicino, sono accolti dal fitto lancio di pomodori da parte di un pubblico immediatamente dimentico dell'impresa contro la Germania Ovest), quel Brasile è forse la miglior squadra che abbia mai solcato l'erba di un campo da calcio, e ha in Edson Arantes Do Nascimiento (il nome ufficiale di Pelè) la sua punta di diamante.

Questi è una star già dalla vittoria in Svezia del '58, quando in finale segna un meraviglioso gol (con due palleggi si libera del muro difensivo e mette i rete con un tiro preciso e angolato). Ha doti straordinarie, di controllo di palla, velocità e forza fisica: nella finale contro l'Italia segna il primo dei gol brasiliani, un colpo di testa cercato con un'elevazione impressionante che lascia praticamente a terra il povero Burgnich, incaricato di marcarlo. Doti che, oltre a consentirgli di raggiungere ogni tipo di successo sportivo, lo dipingono come primo, vero personaggio nel mondo calcistico. Anzi, si può dire che Pelè sia stato - e sia tuttora - l'ambasciatore nel mondo di questo sport. E' tra i primi a tentare l'esportazione della cultura calcistica in un Paese, gli Stati Uniti, che ama esclusivamente basket, baseball e quel derivato del rugby conosciuto come football americano.
Il brasiliano, infatti, dopo un fulgida carriera con la casacca bianca del Santos avrà una breve esperienza nel Cosmos, a New York. Una squadra, questa, che non offre talenti ma si limita a "riciclare" vecchie glorie, coprendoli di denaro e fregiandosi del loro nome quasi per scopi pubblicitari (tra gli italiani, vi militerà alla fine degli anni Settanta l'attaccante laziale Giorgio Chinaglia).

 Ad ogni modo, Pelè è il primo di una lunga schiera di personaggi che, a partire dagli anni Sessanta, popola il mondo del calcio, rendendolo sempre più fenomeno di costume e, al contempo, attività commerciale. Stilarne un elenco è impossibile. Si può provare a citarne qualcuno: da Omar Sivori, l'argentino che farà impazzire i tifosi della Juventus con i suoi dribbling, danzati da gambe costantemente scoperte (ha il vezzo di giocare con i calzettoni abbassati) a Gigi Meroni, l'ala destra del Torino ucciso da un automobile nel 1967, famoso per le sue eccentricità (amava dipingere e portare i capelli lunghi pettinati alla Beatles); da George Best, fantasioso attaccante del Manchester United, a Johann Cruyff, capo carismatico di una squadra, l'Olanda, che nella metà degli anni settanta mette a soqquadro i moduli di gioco universalmente adottati.
Gli arancioni (dal colore della divisa) vanno in campo e fanno una cosa che chiamano "calcio totale": attaccano in dieci, si difendono in undici (il portiere, inevitabilmente, non può partecipare alla prima fase). Un modulo che verrà poi ribattezzato "a zona": ogni giocatore presiede un settore del campo e deve occuparsi di quanto accade nei metri quadrati a sua disposizione. Così giocando, l'Olanda di Cruyff arriva a disputare due finali mondiali consecutive. La sorte, tuttavia, vuole che avversari siano in entrambe le occasioni le nazionali del Paese organizzatore: la Germania Ovest (1974) e l'Argentina (1978). E per due volte, l'Olanda soccombe.

La vittoria dell'Argentina, però, merita di essere ricordata non solo per ragioni calcistiche, ma soprattutto per quelle sociali e politiche. Nel Paese governa infatti una giunta militare che non lesina repressioni e che chiude la società sotto una cappa di grigiume. La notte del 25 giugno, dopo che la nazionale ha inflitto un pesante 3 a 1 agli olandesi, il Paese esplode in una festa che, per usare le parole di Ormezzano, "annichilisce (…). Qualcuno scopre il diritto di questa nazione a godere, nonostante tutte le sue angosce politiche, una profonda, assoluta felicità: Videla, capo della giunta militare (…), è lestissimo a inventarsi sul volto, di solito assai triste, un bel sorriso, e nello sfruttare il successo per dire che l'anima autentica dell'Argentina è quella, che il paese vuole festa, gioia, pace, e che sono brutti e cattivi quelli che gli impediscono di ottenere ciò".
Il calcio, insomma, torna a parlare, come negli anni '30, il linguaggio della politica; ma anche il linguaggio della ribellione sociale. Questo secondo aspetto, differentemente dal primo, va intensificandosi durante gli anni '80 grazie ad un diffuso fenomeno di esasperazione del tifo da stadio. Se fino ad allora nei posti situati in curva (il settore più economico) si andava per guardare la partita, dagli inizi degli Ottanta si va per sfogare tensioni sociali. Le tifoserie si trasformano in veri e propri club, spesso frequentati da un sottoproletariato urbano che vede nei novanta minuti della domenica il modo per buttar fuori dal proprio corpo la rabbia covata in una settimana di grigia insoddisfazione. E, come di solito vanno questo cose, l'unione fa la forza.

In molte curve si distinguono gruppi di tifosi particolarmente votati alla violenza, che si gemellano con omologhi di diverse tifoserie e dichiarano una vera e propria guerra a squadre che la storia del calcio - magari per la frequenza degli incontri, o per il fatto di aver sede nella medesima città - ha voluto rivali sportive. Il fenomeno della violenza in uno stadio ha il suo picco più drammatico in una partita giocata allo stadio Heysel di Bruxelles il 29 maggio 1985. E' in palio la Coppa dei Campioni, e in quella finale se la contendono gli inglesi del Liverpool e gli italiani della Juventus. La scellerata organizzazione belga mette a stretto contatto le due tifoserie nella curva Z, ma soprattutto lascia che gli "hooligans" inglesi entrino nello stadio con un impressionante carico di birra, che non esistano a terminare ben prima che cominci la partita.

Sotto gli influssi dell'alcool, alcuni di loro cominciano una carica al settore adiacente, dove risiedono gli italiani, tra i quali molti padri di famiglia con figli a seguito. Per evitare il bombardamento di cocci di bottiglia e spranghe di ferro, la folla si ammassa contro i muretti di protezione. C'è chi, in quell'assembramento pauroso, rimane soffocato; c'è chi fa un volo di venti metri verso il basso, il muretto di protezione avendo ceduto sotto il peso della folla; c'è chi, nel tentativo di sfuggire, scavalca un cancello di protezione ma perde l'equilibrio e viene trafitto dagli spuntoni. Tutto ciò accade sotto gli occhi dell'inerme polizia belga e sotto quelli delle telecamere, che mandano in eurovisione la carneficina. Che conta, alla fine, 39 morti, di cui 36 italiani. E' la notte più allucinante della storia del calcio. Altri tifosi juventini, seduti nel settore opposto a quello della strage, capiscono cosa sta accadendo e, per entrare in campo, tentano di divellere la rete di protezione.
I giocatori sono chiusi negli spogliatoi, raggiunti da sporadiche notizie. La voglia di giocare non c'è più, ma la partita viene comunque disputata per evitare ulteriori disordini (quali altri?, vien da chiedersi dopo quanto è accaduto). 

Vince la Juventus, con un gol segnato da Michel Platini grazie a un rigore inesistente per un fallo subito dal bianconero Boniek ben al di fuori dell'area di rigore. In una finale ordinaria, quella decisione avrebbe scatenato continue proteste dei giocatori penalizzati, ma in quel momento nessun inglese ha il coraggio di protestare.
La notte dell'Heysel non è certo il primo episodio di violenza calcistica, che ha conosciuto ben altri bilanci (per esempio, novantun morti durante una partita a Sheffield, in Inghilterra, nel maggio dell'89). I primi scontri tra facinorosi, in Italia, si registrano addirittura nel luglio del 1925 a Torino, con una sparatoria tra tifosi dei granata e del Genoa che fortunatamente non ferisce né uccide alcuno. La finale tra Juventus e Liverpool, però, complice la ripresa televisiva, rappresenta l'icona della violenza da stadio, alla quale si torna con la memoria ogni volta che gli spalti offrono lo "spettacolo" di tifosi che manifestano nel modo sbagliato il proprio entusiasmo.

Quello della violenza, ad ogni modo, è uno dei molti aspetti di un'esasperazione che dilaga in tutto l'ambiente, e che dalla metà degli anni Novanta ha conosciuto un'impennata grazie alle nuove regole sulla circolazione dei giocatori imposte da una sentenza emanata nel '95 dalla Corte di Giustizia dell'Unione Europea. Una decisione storica, che sancisce la libera circolazione dei calciatori sul territorio europeo - nel rispetto del principio della libera circolazione dei lavoratori - e che consente quindi a ogni squadra di far giocare un calciatore comunitario in ogni momento del campionato. Risultato: squadre infarcite di campioni stranieri (in omaggio ad una regola scellerata secondo la quale chi ha un cognome straniero è per forza un campione) e calo pauroso del tasso di affetto verso i colori della maglia, elemento imprescindibile nella filosofia del calcio. 

In Europa, insomma, si aggira un esercito di mercenari del pallone che firma contratti laddove il profumo del denaro è più intenso, grazie anche alle migliaia di miliardi che le emittenti televisive - satellitari e non - versano nella casse delle società per acquistare i diritti di trasmissione. Un fenomeno, che, inoltre, da una lato rende i calciatori veri e propri personaggi televisivi, dall'altro li costringe a un calendario serrato di partite, con effetti sul rendimento in campo talvolta deleteri. E' un calcio, insomma, che odora sempre più dell'asettico degli studi televisivi e sempre meno dell'erba dei campi di gioco.

Bibliografia
Una storia del calcio mondiale, di Gian Paolo Ormezzano - Ed. Longanesi, Milano 1989.
La partita del secolo, di Nando Dalla Chiesa - Ed. Rizzoli, Milano 2001
Il romanzo del vecio, di Gigi Garanzini, Enzo Bearzot - Ed. Baldini & Castoldi, Milano 1997
La mia vita come una partita di calcio, di Michel Platini - Ed. Biblioteca Universale Rizzoli, Milano 1990

 

di IGOR PRINCIPE
Ringrazio per l'articolo  
FRANCO GIANOLA, direttore di STORIA IN NETWORK

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 Cuper: "Resto e vinco qui" -

"Nessuno mi toglierà questa idea. Sia io che Moratti siamo concentrati sul secondo posto, poi parleremo". "Se Ronaldo fosse rimasto...".

Nessuno mi toglierà questa idea. Sia io che Moratti siamo concentrati sul secondo posto, poi parleremo". "Se Ronaldo fosse rimasto..."APPIANO GENTILE, 16 maggio 2003 - "Sono convinto di restare e che vincerò qualcosa d'importante con l'Inter. Nessuno mi toglierà questa idea". Aspettando Moratti, parla Cuper. Ostenta sicurezza il tecnico argentino sul suo futuro all'Inter, ma quando si affonda sembra non esserne troppo convinto nemmeno lui. Si dice che quelle di Modena e Perugia potrebbero essere le sue ultime volte sulla panchina nerazzurra, ma Cuper non è d'accordo: "Non credo. Ho parlato con il presidente al telefono. Abbiamo parlato di tante cose, del futuro. Sia io che il presidente pensiamo alle ultime due partite. Arrivare secondi è importantissimo, consente di programmare meglio la prossima stagione". Ma c'è qualcosa da chiarire? "Noi abbiamo dei punti da chiarire e in questa conversazione parelermo di tutto quello di cui si può parlare".

Si dice anche che Cuper potrebbe rimanere, ma i suoi collaboratori no. Accetterebbe di lavorare senza il preparatore Alfano? "Non posso rispondere ad ipotesi ma solo a cose concrete. Per ora questo non è ancora successo e non credo succederà". Mai pensato di lasciare? "No, perché ho preso un impegno con l'Inter e non posso dire che me ne vado. Sono un uomo responsabile. Se poi dovessi avere la sensazione di non riuscire più a gestire un club come l'Inter, allora d'accordo. Ma non è così. Ho firmato un contratto con l'Inter sino al 2005 e solo un motivo importante mi spingerebbe ad andarmene, non certo l'eliminazione nella semifinale di Champions League. Un conto sarebbe stato essere eliminati nel preliminare, un altro in semifinale. Allora il Real che è uscito cosa è, un casino assoluto? No". Guardando indietro, il rimpianto più grande può essere l'infortunio di Crespo. "Gli infortuni sono una cosa importante, perché possono condizionare. Se non puoi fare scelte devi modificare qualcosa e non è certo l'ideale. Non è questo però l'unico motivo per cui non abbiamo vinto lo scudetto o la Champions".

I tifosi sono sempre più delusi. "Capisco la gente. Dopo tanti anni d'attesa sono costretti ad aspettare un'altra stagione per vincere. È una cosa molto dura. Ogni volta che mi siedo in panchina e guardo la curva penso che sarà difficile per loro aspettare. Capisco il loro dolore e la loro rabbia ma analizzando queste due stagioni credo che io possa vincere uno scudetto qui all'Inter. Una stagione così dura deve servirci da esperienza per il prossimo campionato". Inter fuori dalla Champions, come il Real. Come dire Cuper-Ronaldo 0-0. Solo che il Fenomeno aveva detto che se ne andava per vincere... Soddisfatto? "No. Per prima cosa perché io non sono vendicativo. Ronaldo ha deciso di andar via perché...Perché non lo so. E continua ancora a parlare di me. Se ne è andato perché voleva vincere qualcosa d'importante con il Real. Oggi mi viene da pensare che se fosse rimasto avremmo potuto vincere qualcosa d'importante qui".
 

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1- Inter Milano ITA 269.75
2- Arsenal ENG 265.28
3- Real Madrid ESP 265.00
4- Manchester United ENG 259.50
5- Juventus ITA 255.60
6- AC Milan ITA 253.10
7- Valencia ESP 241.43
8- Bayern Munich GER 232.53
9- Borussia Dortmund GER 225.30
10- FC Porto POR 224.50
11- Newcastle United ENG 222.83
12- Independiente ARG 218.68
13- Deportivo La Coruna ESP 218.36

14- Santos BRA 215.89
15- Lazio ITA 215.73
16- Ajax NED 215.11
17- Real Sociedad ESP 214.25
18- Besiktas TUR 209.79
19- San Lorenzo ARG 204.00
20- PSV NED 202.53
21- Celtic SCO 200.83
22- Boca Juniors ARG 196.97
23- Club Brugge BEL 194.38
24- Corinthians BRA 193.50
25- River Plate ARG 190.74

Giuseppe Sapienza - Ufficio Stampa

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UN ALTRO PRIMATO PER L'INTER: L'AMERICANA ESPN LA PONE IN CIMA ALLA SPECIALE CLASSIFICA DEI TOP 25


Lunedi, 10 Febbraio 2003 16:16:28 MILANO -

Sviluppata dallo staff di Espn, gruppo media americano, la classifica dei "Top 25 club", aggiornata a ieri, consegna all'Inter un altro primato nella giornata dei primi posti. Infatti, oltre al top nella classifica della serie A, in quella della solidarietà (con Inter Campus) e dei tifosi allo stadio, l'Inter, secondo Espn, primeggia in quella assoluta mondiale. Qui di seguito pubblichiamo la classifica di Espn:

dal sito www.inter.it

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CARRIERA HECTOR RAUL CUPER

Nato a SANTA FE' (ARG)  il 16/11/1955
Stagione Squadra Serie Piazzamento
2001/2002 INTER Serie A 2
2001/2002 INTER Serie A 3
2000/2001 VALENCIA Liga 5
1999/2000 VALENCIA Liga 3
1998/1999 MAIORCA Liga 3
1997/1998 MAIORCA Liga 5
1996/1997 LANUS Serie A ARG 11
1995/1996 LANUS Serie A ARG 3
1994/1995 HURACAN Serie A ARG 19
1993/1994 HURACAN Serie A ARG 2
1992/1993 HURACAN Serie A ARG 7